venerdì 26 aprile 2013

Paradossi e dintorni

C'era una volta una rivista mensile distribuita gratuitamente nei dintorni di Reggio Emilia, Mantova, Modena, Parma. La rivista si chiamava "L'Eretico" che, come doviziosamente ci informava il Direttore, viene dal greco eresia che significa "scelta". Forse poco felice come scelta, poiché il nome veniva sovente storpiato goliardicamente con i più facili e triti calembour: ermetico, emetico, finanche erotico. Felice invece era la scelta di pubblicare contenuti di livello culturale non banale, che negli anni hanno portato la rivista a diffondersi in scuole e circoli culturali, stimolando dibattiti, riflessioni, letture in classe ed altri significativi utilizzi.

La rivista oggi non esiste più da anni, e anche il relativo sito web sembra definitivamente andato a ramengo. Desidero tuttavia ripubblicare qui alcuni contenuti significativi da me proposti a suo tempo, con l'ovvia avvertenza che si tratta di un tipo di divulgazione diverso da quello cui sono abituati i miei quattro lettori: sono articoli e interviste pensate per un range di lettori tipicamente compreso tra lo studente liceale e i suoi insegnanti, per una lettura commentata in classe o in circolo ricreativo, in due parole per chi dell'argomento sente parlare probabilmente per la prima volta in vita sua. Esperimento interessante, e per il sottoscritto inedito ed isolato: a voi giudicarne l'efficacia.

Dopo un primo articolo introduttivo, la seconda uscita era dedicata ai paradossi.

Continuiamo le nostre escursioni turistiche con qualche suggestivo scorcio paesaggistico di un territorio situato nella vastissima intersezione tra la logica, la matematica, la filosofia, le scienze cognitive e l'intrattenimento: i paradossi.

Seguendo l'oramai collaudata impostazione colloquiale, rilassata ed informale, ci sforzeremo di utilizzare un lessico il più possibile elementare, accessibile, non specialistico. Lo scopo è quello di privilegiare in modo sistematico chiarezza, intuitività e semplicità rispetto al rigore formale, rinunciando scientemente a priori ad ogni improponibile pretesa di esaustività ed all'uso di qualsivoglia formalismo simbolico o di concetti e strumenti logico-matematici avanzati.

Per partire subito comme il faut: il presente articolo contiene almeno un errore.
Riflettendo, non c'è alcun bisogno di leggere tutto per sapere che l'affermazione precedente è sicuramente vera: infatti, se ci sono uno o più errori nel resto dell'articolo, la frase descrive banalmente uno stato di fatto, ed è quindi ovviamente vera. Se, al contrario, nel resto dell'articolo non vi sono errori, allora lo sbaglio consiste proprio nell'affermare che vi sono errori: dunque la proposizione rimane vera !
Quella appena presentata è una versione del cosiddetto “paradosso della prefazione”, dovuto al logico D. C. Makinson. Sorprendente ? Sorprendere è esattamente lo scopo della maggior parte dei paradossi. In greco paradoxon significa infatti “contrario all'opinione corrente” oppure “oltre l'apparenza”.

Naturalmente sarebbe indelicato e politicamente scorretto citare, a proposito dell'opinione comune (in greco doxa) e della relativa facilità di contraddirla, lo sferzante aforisma attribuito al filosofo René Guénon: “L'opinione della maggioranza non può essere che l'espressione dell'incompetenza”. E qui siamo andati a cercare un secondo effetto paradossale, stavolta retorico: per dire che non vogliamo parlare di qualcosa, ne abbiamo invece parlato, col sorriso sulle labbra. Insignificante omaggio ad un grande filosofo, Ludwig Wittgenstein.

L'uso ed abuso del termine “paradosso” nel linguaggio mediatico e quotidiano ha, come spesso avviene, un effetto deleterio su una corretta comprensione del concetto. Esistono in realtà numerose specie (anche storiche) di “paradossi”: aporie, antinomie, insolubilia, paralogismi. Vi sono alcuni paradossi fondanti, di grande importanza storica, altri che sono solo banali giocattoli linguistici o grafici, altri ancora - anche tra quelli che sono in giro da secoli - che sono errori logici piuttosto grossolani (paralogismi) oppure risultano frutto di insufficienti conoscenze o cattive comprensioni; paradossi dai quali sono scaturiti rigorosi teoremi o intere riformulazioni meta-teoriche, e “paradossi” il cui unico effetto può essere una sana risata.

Possiamo evitare sbrigativamente tassonomie, etimologie e definizioni cavandocela con una nota boutade: un paradosso è quasi sempre una verità che si presenta a testa in giù, camminando sulle mani, per attirare l'attenzione.

In realtà può risultare interessante classificare i paradossi in maniera funzionale, ossia in base al loro impatto ed al ruolo che assumono:
- Paradossi “logici”: tramite argomenti apparentemente corretti pervengono ad una contraddizione che riduce all'assurdo, negandole, le ipotesi di partenza (spesso implicite e date per scontate nella doxa, nell'opinione comune).

- Paradossi “ontologici”: argomenti e ragionamenti che appaiono contraddittori, sorprendenti, controintuitivi o inusuali, ma che sono rigorosamente conseguenti.

Oltre ai precedenti, esistono anche paradossi che potremmo definire “retorici” o di intrattenimento: ad esempio, un simpatico divertissement letterario o salottiero che di norma si limita ad esibire qualche sottigliezza semantica o logica, o ad evidenziare i nostri limiti cognitivi e sensoriali.

Iniziamo con un aperitivo molto leggero: uno tra i più noti ed elementari paradossi numerici, spesso divulgato sotto forma di indovinello. Esso suona all'incirca come segue: un ricco mercante arabo, morendo, lasciò in eredità ai suoi tre figli i suoi cammelli, ordinando che la metà dei cammelli fosse consegnata al primogenito, un terzo al secondo figlio e un nono al terzo figlio. Si riscontrò però che i cammelli rimasti erano 17, e questo fu ovviamente causa di discussioni tra i fratelli, incapaci di applicare alla lettera la volontà del defunto padre. Alla fine essi decisero di rivolgersi al cadì, il quale saggiamente si presentò con il suo cammello e lo unì agli altri, operando così le divisioni richieste: la metà di diciotto, ovvero nove cammelli al primogenito; un terzo, cioè sei cammelli, al secondo; un nono, ossia due cammelli, al terzo. Avendo distribuito in tutto 9 + 6 + 2 = 17 cammelli, riprese quindi il proprio cammello, e se ne andò tra i ringraziamenti dei figli entusiasti del suo modo di dirimere la questione. La spiegazione di questo fragile “paradosso” è lasciata come semplicissimo esercizio per il lettore.

Un altro divertente paradosso ci è riportato da Aulo Gellio ne "Le notti attiche", ed ha come protagonisti il noto sofista Protagora ed un suo allievo, tale Euatlo o Evatlo. In questa sede, più che all'estremo rigore filologico, siamo ovviamente interessati ai contenuti: vale però la pena di ricordare che esistono varie altre versioni dell'aneddoto, e tra queste alcune citano come protagonisti Corace siracusano e Tisia.
Narra dunque Aulo Gellio che il giovane Euatlo si rivolse a Protagora per essere istruito in retorica forense, così da poter poi intraprendere una carriera da avvocato. Poiché lo studente non possedeva i mezzi per pagare la sua istruzione, il buon Protagora concesse che avrebbe comunque elargito le proprie lezioni, ed il giovane Euatlo lo avrebbe compensato dopo aver vinto la sua prima causa. Avvenne però che Euatlo, dopo aver appreso l'arte forense, decise di dedicarsi ad altra carriera. Tempo dopo il suo antico Maestro lo avvicinò e gli ricordò il suo debito: la risposta di Euatlo fu però negativa. “Maestro, mi permetto di ricordarvi il nostro accordo: avrei pagato dopo aver vinto la mia prima causa. Ma io non ho ancora patrocinato alcuna causa, e men che meno ne ho vinta una: pertanto non vi devo alcunché”.
Protagora si rivolse quindi ai giudici, ai quali spiegò così la questione: “Se Euatlo perde questa causa che gli ho intentato, dovrà in forza di legge versarmi l'onorario dovuto. Se però Euatlo vince, ebbene questa sarà la prima causa che egli vince: secondo il nostro accordo, egli dovrà quindi onorare il suo debito. In ambedue i casi, Euatlo dovrà pagare !”.
Non fu da meno però il giovane allievo: ”Se otterrò ragione in questa causa, ciò significa che Protagora avrà torto, e dunque non gli devo la cifra che egli mi chiede. Se d'altro canto perdo la causa, sarò ancora un avvocato che non ha mai vinto una causa, ed ai sensi del nostro accordo, non dovrò onorare il mio debito !”.

Al di là della piacevolezza letteraria dell'aneddoto, dal punto di vista logico questo paradosso implica solo che le premesse sono incoerenti, in quanto tramite due distinte argomentazioni formalmente corrette si giunge a conclusioni contraddittorie: il che è esattamente il meccanismo della reductio ad absurdum. Tuttavia, quel che rende il problema stimolante dal punto di vista concettuale sono più le ambiguità semantiche e legali.

Ad esempio, Euatlo avrebbe potuto tranquillamente nominare un altro difensore: in questo modo non avrebbe ancora patrocinato (né tantomeno vinto) la sua prima causa, e nessuno avrebbe potuto chiedergli di pagare Protagora sulla base dell'accordo originario. Si sarebbe arroccato in una posizione difensiva pressoché inattaccabile ! Questo però apre ad ulteriori problemi, seppure alquanto sottili: una volta vinta (con buona certezza) tale causa, Euatlo sarebbe stato realmente libero di intraprendere in futuro la professione forense e di vincere una causa senza vedersi nuovamente richiedere il pagamento dal suo antico maestro ? Si poteva forse all'epoca essere processati più volte per il medesimo illecito amministrativo, cassando sentenze precedenti in presenza di “fatti nuovi” ? E via così, in una catena di complicazioni che rende forse meno appetibile l'idea ingenua dell'avvocato terzo ai contendenti.

In realtà il paradosso nelle premesse sussiste a causa della buona fede di Protagora, che subordina il pagamento ad un atto dato implicitamente come l'unico esito possibile: ovvero che il suo allievo intraprenderà effettivamente la carriera forense, il che implica che prima o poi vincerà almeno una causa. Questo fatto, però, non è caratterizzato da elementi di certezza o di automatismo, anzi: dipende interamente dalla volontà di Euatlo. Nella maggior parte delle democrazie moderne una simile clausola in un contratto viene semplicemente considerata nulla per legge, e questo sostanzialmente scioglie il paradosso, dando ragione ai numerosi filosofi che, in varie epoche, hanno sostenuto la tesi della non validità del contratto iniziale.

Per il momento ci siamo (sperabilmente) divertiti, ma non abbiamo ancora avvistato un vero paradosso logico. Gli ingredienti principali di un siffatto paradosso sono infatti notoriamente due: l'autoriferimento e la negazione. Al prossimo aperitivo procureremo quindi d'intervistare virtualmente qualche mentitore di professione, per illustrarci il più noto paradosso di tale “mestiere” e la sua interessantissima storia. Nell'attesa lasciamo il lettore a meditare sul fatto che, nelle più diffuse lingue correntemente parlate, esistono numerosi termini (anche ingiuriosi) per indicare “colui il quale non dice la verità”, ma non esiste una singola parola specifica per indicare chi, invece, dice sistematicamente o anche occasionalmente la verità (senza omissioni o aggiunte).

Uno tra i più noti paradossi logici è probabilmente quello del sorite (letteralmente: mucchio), del quale esistono formulazioni risalenti al V e IV secolo a.C. attribuite a Zenone di Elea ed Eubulide di Mileto. Si tratta di uno dei più basilari paradossi riguardanti l'induzione.

Nella formulazione originale, si sostiene che un granello (di sabbia, di miglio o simili) dovrebbe produrre rumore cadendo, poiché un mucchio (di sabbia, di miglio etc.) produce rumore quando cade. Equivalentemente, dal fatto che un granello di sabbia non produce apparentemente rumore quando cade si può erroneamente inferire che anche un mucchio di sabbia non dovrebbe produrre rumore.
Naturalmente, dopo venticinque secoli questa formulazione ci appare alquanto ingenua, e ben poco interessante. Oggi si apprende in età scolare cosa è un suono, come si origina questa perturbazione meccanica e in che modo si propaga attraverso i corpi elastici, in tutti i loro stati di aggregazione macroscopici: solidi, liquidi e gas (inclusa ovviamente l'aria).
In questo contesto, di norma, si spiega anche come gli animali in genere e gli umani in particolare percepiscono i suoni: esiste una soglia di intensità massima sopportabile, la “soglia del dolore”, che per l'uomo è pari a 130 dB, e allo stesso modo esiste anche una soglia di intensità minima, al di sotto della quale nessun suono o rumore viene percepito, pur essendo la relativa vibrazione presente in natura e rilevabile tramite appositi strumenti di misura. La soglia di sensibilità uditiva è un limite di natura, dipende dalla fisiologia del nostro apparato uditivo e cognitivo, dalla frequenza del suono, dall'età del soggetto e da numerosi altri fattori.
Questo fatto riduce il presunto paradosso ad un banale problema di soglia: un paralogismo che poggia su una ipotesi implicita falsa. E' invece banalmente vero che anche il singolo granello produce in qualche modo “rumore” quando tocca il suolo: il fatto è, semplicemente, che noi non siamo fisicamente in grado di udire tale rumore. D'altro canto moltissimi animali sono in grado di udire suoni che, per intensità o frequenza, sfuggono invece alle grossolane testimonianze dei nostri sensi.
Una versione senz'altro più interessante del paradosso è invece quella che chiede “quanti” granelli di sabbia costituiscano un mucchio (o equivalentemente, “quando” esattamente il girino diventa una rana, e così via). Qui si potrebbe superficialmente ritenere che il problema consista nella vaghezza semantica della definizione di “mucchio”. No: non esiste (ancora) una trattazione della vaghezza che sciolga questo nodo. Anzi, per (non) tranquillizzare il lettore, si può anche procedere a ritroso: dato un mucchio di sabbia, togliamo un granello. Cosa si ottiene ? Ancora un mucchio, evidentemente. Ripetiamo l'operazione, togliendo un granello di sabbia per volta. Il sorite è sempre lì, davanti ai nostri occhi ! E cosa accade quando si toglie finalmente l'ultimo granello di sabbia ? Il sorite è scomparso ! Ma era ancora un sorite quando erano rimasti “pochi” granelli ?
Tra studenti sanamente goliardici, una volta a conoscenza di questo paradosso, è da sempre in uso la costruzione di versioni equivalenti utilizzando termini come “alto”, “basso”, “lungo”, “corto”, “ricco”, “povero”, “piccolo”, “grande”, “villoso”, “glabro”... i risultati sono quasi sempre esilaranti. La base intuitiva non cambia: un millimetro in più non rende “alto” o “lungo”, un centesimo in più non rende “ricco” e così via.
E' certamente chiaro, a questo punto, che il paradosso del sorite espone capacità utili e divertenti: ad esempio, quella di svillaneggiare elegantemente alcune insensatezze del modo di esprimersi corrente, o quella - non meno importante - di evidenziare il carattere genuinamente paradossale di talune proposte di normazione quantitativa che abbiamo intravisto solcare l'etere nella scorsa trentina d'anni.
Oltre a ciò, in modo forse più sottile, tale paradosso acquisisce anche maggior dignità ed importanza quando spostiamo l'attenzione su temi che oggi rivestono enorme interesse scientifico: complessità, emergenza, auto-organizzazione, riduzionismo. Qui diventa cruciale la domanda del sorite riformulata: quando esattamente le caratteristiche di un aggregato complesso (esempi classici: l'alveare, il formicaio, il cervello...) emergono ed iniziano a superare la mera somma delle caratteristiche delle singole componenti ? Esiste una “massa critica” in simili questioni ?
Un sia pur minimo approfondimento in questo senso richiederebbe purtroppo ben altri spazi, e una complessità lessicale e concettuale che supera di gran lunga i limiti divulgativi che qui ci siamo prefissi. Resti comunque presente l'importanza assunta in questioni così straordinariamente complesse ed attuali da un paradosso vecchio di duemilacinquecento anni.
E' forse opportuno riaffermare chiaramente, come si è cercato fin qui di mostrare, che paradossi di questo tipo non sono in alcun modo sconcertanti. Il loro fascino deriva invece dall'abuso che essi fanno di un tipo di ragionamento estremamente comune, essendo basati su catene molto lunghe di sillogismi e più in generale sulla induzione, che nella sua versione sperimentale (ben diversa da quella matematica) è stata fatta oggetto in anni recenti di numerosi e ben più elaborati paradossi, atti ad evidenziarne alcune debolezze. Tuttavia, invece di parlare dei paradossi più specialistici e meno immediati sull'induzione, come quelli degli smeraldi “blerdi” o dei corvi neri, preferiamo dedicare il poco spazio rimanente ad un altro antico paradosso logico, forse il più noto ed importante.
Si tratta in questo caso di un vero e proprio paradosso fondante, al quale sono stati dedicati interi testi, lunghi capitoli in saggi specialistici, e innumerevoli interventi: talmente tanta carta stampata che, senza particolare sforzo, si possono produrre non meno di cinquanta pagine dense di riferimenti bibliografici attorno a questa antinomia, limitandosi solo a testi ed articoli ad oggi reperibili con facilità in commercio e nelle biblioteche pubbliche.
Questo dato impressionante è da solo sufficiente ad inquadrare la dimensione dell'interesse attorno al problema e le energie poste in campo per la soluzione del cosiddetto “paradosso del mentitore”, la cui prima formulazione realmente paradossale è dovuta ad Eubulide di Mileto. Nella forma detta pseudomenon, il nostro paradosso suona brutalmente come “Io sto mentendo”. E' facilmente intuibile la trappola logica: se la frase fosse vera, chi la pronuncia starebbe mentendo, ossia starebbe producendo una frase non vera. Se d'altro canto fosse falsa, chi la pronuncia dovrebbe dire la verità, il che (di nuovo) contraddice il contenuto della frase. Nella variante “Questa frase è falsa” emerge con maggiore chiarezza l'autoreferenza (una frase che dice qualcosa di sé stessa), e sparisce nel contempo il riferimento al parlante, che potrebbe indurre il lettore a distrarsi con interpretazioni estensionali o contestuali.
Questo paradosso gode di una giusta fama principalmente a causa dell'enorme impatto sul lavoro fondazionale in logica e matematica avviato alla fine del diciannovesimo secolo, ed in particolare sulla definizione corretta, rigorosa e coerente della nozione di verità e di “asserto vero”: non solo entro la semantica “addomesticata” e rigorosa dei linguaggi formali, ma anche nel contesto ordinario e quotidiano del linguaggio naturale, ossia il linguaggio corrente, universalistico, non specialistico.
Praticamente tutti i più importanti logici e filosofi analitici dello scorso secolo si sono occupati di questa antinomia, in contesti della massima importanza epistemica: tra i principali dobbiamo citare almeno Charles S. Peirce, Ernst Schröder, Bertrand Russell, Frank P. Ramsey, Kurt Gödel, Alfred Tarski, Rudolf Carnap, Willard V.O. Quine.
Al paradosso del mentitore è, tra le tante, affine la simpatica versione divulgativa del fondamentale paradosso insiemistico di Russell. A tale formulazione, dovuta allo stesso Russell e nota come “paradosso del barbiere”, spetta anche il merito di avere evidenziato in modo del tutto esplicito il potere esplosivo di talune combinazioni di autoriferimento e negazione nel linguaggio naturale.
Si pensi ad un piccolo villaggio, nel quale vi è un solo barbiere: egli, per definizione, rade tutti e soli coloro che non radono sé stessi. La domanda è quindi: chi rade il barbiere ?
Ovviamente questa forma del paradosso è del tutto innocua: vi sono numerosi e divertenti metodi per demolire e spazzar via questa versione divulgativa, a causa delle innumerevoli ambiguità. Ad esempio, il barbiere potrebbe in realtà essere una signora, o potrebbe non avere necessità di radersi per qualunque altro motivo (perché etnicamente o geneticamente glabro, per ragioni religiose, oppure per la semplice abitudine di portare la barba lunga...): quindi, nessuno rade il barbiere, e la questione finisce lì. Oppure, secondo quanto suggerisce un altro grande logico, il geniale Willard Van Orman Quine, un siffatto barbiere non potrebbe semplicemente esistere, perché la premessa è autocontraddittoria.
Proprio a Quine si deve una ulteriore interessantissima riformulazione del paradosso del mentitore, che si esprime esattamente come segue (massima attenzione alle virgolette !): “«è falsa quando è preceduta dalla sua citazione» è falsa quando è preceduta dalla sua citazione”. Ancora una volta abbiamo una frase che dice di sé stessa di essere falsa, e in modo particolarmente elegante, grazie ad un sofisticato gioco di alternanza tra uso e menzione.
Una trattazione tecnica minimamente seria e storicamente circostanziata di questo solo paradosso meriterebbe ben altri spazi, fino ad occupare un intero tomo d'enciclopedia: purtroppo noi siamo invece costretti a fermarci qui, sperando almeno di avere suscitato curiosità e qualche reminiscenza. Fino a pochi anni fa non era raro, infatti, che nei programmi liceali di filosofia (o di matematica) vi fosse spazio almeno per un accenno a questi temi: noi auspichiamo che si continui a parlarne oggi, magari anche sulla spinta di insignificanti stimoli divulgativi come il presente.

Si rimanda il lettore interessato alla sterminata bibliografia in merito ai paradossi, della quale qui si propone ben volentieri un minimale ma significativo assaggio.

Risonanze bibliografiche:
Raffaele Aragona, “Enigmatica”, Edizioni Scientifiche Italiane
Stefano Bartezzaghi, “Lezioni di enigmistica”, Einaudi
Franca D'Agostini, “Disavventure della verità”, Einaudi
Nicholas Falletta, “Il libro dei paradossi”, TEA
Ian Hacking, “Introduzione alla probabilità e alla logica induttiva”, Il Saggiatore
Gabriele Lolli, “Il riso di Talete”, Boringhieri
Ubaldo Nicola, “Sembra ma non è”, Demetra
John Allen Paulos, “Penso, dunque rido”, Feltrinelli
Massimo Piattelli Palmarini, “I linguaggi della scienza”, Oscar Mondadori
William Poundstone, “Labirinti della ragione”, PAN libri
Francesca Rivetti Barbò, “L'antinomia del mentitore”, Jaca Book
Raymond Smullyan, “Qual è il titolo di questo libro ?”, Zanichelli