C'era una volta una rivista mensile distribuita gratuitamente nei dintorni di Reggio Emilia, Mantova, Modena, Parma. La rivista si chiamava "L'Eretico" che, come doviziosamente ci informava il Direttore, viene dal greco eresia che significa "scelta". Forse poco felice come scelta, poiché il nome veniva sovente storpiato goliardicamente con i più facili e triti calembour: ermetico, emetico, finanche erotico. Felice invece era la scelta di pubblicare contenuti di livello culturale non banale, che negli anni hanno portato la rivista a diffondersi in scuole e circoli culturali, stimolando dibattiti, riflessioni, letture in classe ed altri significativi utilizzi.
La rivista oggi non esiste più da anni, e anche il relativo sito web sembra definitivamente andato a ramengo. Desidero tuttavia ripubblicare qui alcuni contenuti significativi da me proposti a suo tempo, con l'ovvia avvertenza che si tratta di un tipo di divulgazione diverso da quello cui sono abituati i miei quattro lettori: sono articoli e interviste pensate per un range di lettori tipicamente compreso tra lo studente liceale e i suoi insegnanti, per una lettura commentata in classe o in circolo ricreativo, in due parole per chi dell'argomento sente parlare probabilmente per la prima volta in vita sua. Esperimento interessante, e per il sottoscritto inedito ed isolato: a voi giudicarne l'efficacia.
Dopo un primo articolo introduttivo, la seconda uscita era dedicata ai paradossi.
Continuiamo
le nostre escursioni turistiche con qualche suggestivo scorcio
paesaggistico di un territorio situato nella vastissima intersezione
tra la logica, la matematica, la filosofia, le scienze cognitive e
l'intrattenimento: i paradossi.
Seguendo
l'oramai collaudata impostazione colloquiale, rilassata ed informale,
ci sforzeremo di utilizzare un lessico il più possibile elementare,
accessibile, non specialistico. Lo scopo è quello di privilegiare in
modo sistematico chiarezza, intuitività e semplicità rispetto al
rigore formale, rinunciando scientemente a priori ad ogni
improponibile pretesa di esaustività ed all'uso di qualsivoglia
formalismo simbolico o di concetti e strumenti logico-matematici
avanzati.
Per
partire subito comme
il faut:
il
presente articolo contiene almeno un errore.
Riflettendo,
non c'è alcun bisogno di leggere tutto per sapere che l'affermazione
precedente è sicuramente vera: infatti, se ci sono uno o più errori
nel resto dell'articolo, la frase descrive banalmente uno stato di
fatto, ed è quindi ovviamente vera. Se, al contrario, nel resto
dell'articolo non vi sono errori, allora lo sbaglio consiste proprio
nell'affermare che vi sono errori: dunque la proposizione rimane vera
!
Quella
appena presentata è una versione del cosiddetto “paradosso della
prefazione”, dovuto al logico D. C. Makinson. Sorprendente ?
Sorprendere è esattamente lo scopo della maggior parte dei
paradossi. In greco paradoxon
significa infatti “contrario all'opinione corrente” oppure “oltre
l'apparenza”.
Naturalmente
sarebbe indelicato e politicamente scorretto citare, a proposito
dell'opinione comune (in greco doxa) e della relativa facilità
di contraddirla, lo sferzante aforisma attribuito al filosofo René
Guénon: “L'opinione della maggioranza non può essere che
l'espressione dell'incompetenza”. E qui siamo andati a cercare un
secondo effetto paradossale, stavolta retorico: per dire che non
vogliamo parlare di qualcosa, ne abbiamo invece parlato, col sorriso
sulle labbra. Insignificante omaggio ad un grande filosofo, Ludwig
Wittgenstein.
L'uso
ed abuso del termine “paradosso” nel linguaggio mediatico e
quotidiano ha, come spesso avviene, un effetto deleterio su una
corretta comprensione del concetto. Esistono in realtà numerose
specie (anche storiche) di “paradossi”: aporie, antinomie,
insolubilia,
paralogismi. Vi sono alcuni paradossi fondanti, di grande importanza
storica, altri che sono solo banali giocattoli linguistici o grafici,
altri ancora - anche tra quelli che sono in giro da secoli - che sono
errori logici piuttosto grossolani (paralogismi) oppure risultano
frutto di insufficienti conoscenze o cattive comprensioni; paradossi
dai quali sono scaturiti rigorosi teoremi o intere riformulazioni
meta-teoriche, e “paradossi” il cui unico effetto può essere una
sana risata.
Possiamo
evitare sbrigativamente tassonomie, etimologie e definizioni
cavandocela con una nota boutade: un paradosso è quasi
sempre una verità che si presenta a testa in giù, camminando sulle
mani, per attirare l'attenzione.
In
realtà può risultare interessante classificare i paradossi in
maniera funzionale, ossia in base al loro impatto ed al ruolo che
assumono:
-
Paradossi “logici”: tramite argomenti apparentemente corretti
pervengono ad una contraddizione che riduce all'assurdo, negandole,
le ipotesi di partenza (spesso implicite e date per scontate nella
doxa,
nell'opinione comune).
-
Paradossi “ontologici”: argomenti e ragionamenti che appaiono
contraddittori, sorprendenti, controintuitivi o inusuali, ma che sono
rigorosamente conseguenti.
Oltre
ai precedenti, esistono anche paradossi che potremmo definire
“retorici” o di intrattenimento: ad esempio, un simpatico
divertissement
letterario o salottiero che di norma si limita ad esibire qualche
sottigliezza semantica o logica, o ad evidenziare i nostri limiti
cognitivi e sensoriali.
Iniziamo
con un aperitivo molto leggero: uno tra i più noti ed elementari
paradossi numerici, spesso divulgato sotto forma di indovinello. Esso
suona all'incirca come segue: un ricco mercante arabo, morendo,
lasciò in eredità ai suoi tre figli i suoi cammelli, ordinando che
la metà dei cammelli fosse consegnata al primogenito, un terzo al
secondo figlio e un nono al terzo figlio. Si riscontrò però che i
cammelli rimasti erano 17, e questo fu ovviamente causa di
discussioni tra i fratelli, incapaci di applicare alla lettera la
volontà del defunto padre. Alla fine essi decisero di rivolgersi al
cadì, il quale saggiamente si presentò con il suo cammello e lo unì
agli altri, operando così le divisioni richieste: la metà di
diciotto, ovvero nove cammelli al primogenito; un terzo, cioè sei
cammelli, al secondo; un nono, ossia due cammelli, al terzo. Avendo
distribuito in tutto 9 + 6 + 2 = 17 cammelli, riprese quindi il
proprio cammello, e se ne andò tra i ringraziamenti dei figli
entusiasti del suo modo di dirimere la questione. La spiegazione di
questo fragile “paradosso” è lasciata come semplicissimo
esercizio per il lettore.
Un
altro divertente paradosso ci è riportato da Aulo Gellio ne "Le
notti attiche", ed ha come protagonisti il noto sofista
Protagora ed un suo allievo, tale Euatlo o Evatlo. In questa sede,
più che all'estremo rigore filologico, siamo ovviamente interessati
ai contenuti: vale però la pena di ricordare che esistono varie
altre versioni dell'aneddoto, e tra queste alcune citano come
protagonisti Corace siracusano e Tisia.
Narra
dunque Aulo Gellio che il giovane Euatlo si rivolse a Protagora per
essere istruito in retorica forense, così da poter poi intraprendere
una carriera da avvocato. Poiché lo studente non possedeva i mezzi
per pagare la sua istruzione, il buon Protagora concesse che avrebbe
comunque elargito le proprie lezioni, ed il giovane Euatlo lo avrebbe
compensato dopo aver vinto la sua prima causa. Avvenne però che
Euatlo, dopo aver appreso l'arte forense, decise di dedicarsi ad
altra carriera. Tempo dopo il suo antico Maestro lo avvicinò e gli
ricordò il suo debito: la risposta di Euatlo fu però negativa.
“Maestro, mi permetto di ricordarvi il nostro accordo: avrei pagato
dopo aver vinto la mia prima causa. Ma io non ho ancora patrocinato
alcuna causa, e men che meno ne ho vinta una: pertanto non vi devo
alcunché”.
Protagora
si rivolse quindi ai giudici, ai quali spiegò così la questione:
“Se Euatlo perde questa causa che gli ho intentato, dovrà in forza
di legge versarmi l'onorario dovuto. Se però Euatlo vince, ebbene
questa sarà la prima causa che egli vince: secondo il nostro
accordo, egli dovrà quindi onorare il suo debito. In ambedue i casi,
Euatlo dovrà pagare !”.
Non
fu da meno però il giovane allievo: ”Se otterrò ragione in questa
causa, ciò significa che Protagora avrà torto, e dunque non gli
devo la cifra che egli mi chiede. Se d'altro canto perdo la causa,
sarò ancora un avvocato che non ha mai vinto una causa, ed ai sensi
del nostro accordo, non dovrò onorare il mio debito !”.
Al
di là della piacevolezza letteraria dell'aneddoto, dal punto di
vista logico questo paradosso implica solo che le premesse sono
incoerenti, in quanto tramite due distinte argomentazioni formalmente
corrette si giunge a conclusioni contraddittorie: il che è
esattamente il meccanismo della reductio ad absurdum.
Tuttavia, quel che rende il problema stimolante dal punto di vista
concettuale sono più le ambiguità semantiche e legali.
Ad
esempio, Euatlo avrebbe potuto tranquillamente nominare un altro
difensore: in questo modo non avrebbe ancora patrocinato (né
tantomeno vinto) la sua prima causa, e nessuno avrebbe potuto
chiedergli di pagare Protagora sulla base dell'accordo originario. Si
sarebbe arroccato in una posizione difensiva pressoché inattaccabile
! Questo però apre ad ulteriori problemi, seppure alquanto sottili:
una volta vinta (con buona certezza) tale causa, Euatlo sarebbe stato
realmente libero di intraprendere in futuro la professione forense e
di vincere una causa senza vedersi nuovamente richiedere il pagamento
dal suo antico maestro ? Si poteva forse all'epoca essere processati
più volte per il medesimo illecito amministrativo, cassando sentenze
precedenti in presenza di “fatti nuovi” ? E via così, in una
catena di complicazioni che rende forse meno appetibile l'idea
ingenua dell'avvocato terzo ai contendenti.
In
realtà il paradosso nelle premesse sussiste a causa della buona fede
di Protagora, che subordina il pagamento ad un atto dato
implicitamente come l'unico esito possibile: ovvero che il suo
allievo intraprenderà effettivamente la carriera forense, il che
implica che prima o poi vincerà almeno una causa. Questo fatto,
però, non è caratterizzato da elementi di certezza o di
automatismo, anzi: dipende interamente dalla volontà di Euatlo.
Nella maggior parte delle democrazie moderne una simile clausola in
un contratto viene semplicemente considerata nulla per legge, e
questo sostanzialmente scioglie il paradosso, dando ragione ai
numerosi filosofi che, in varie epoche, hanno sostenuto la tesi della
non validità del contratto iniziale.
Per
il momento ci siamo (sperabilmente) divertiti, ma non abbiamo ancora
avvistato un vero paradosso logico. Gli ingredienti principali di un
siffatto paradosso sono infatti notoriamente due: l'autoriferimento e
la negazione. Al prossimo aperitivo procureremo quindi
d'intervistare virtualmente qualche mentitore di professione, per
illustrarci il più noto paradosso di tale “mestiere” e la sua
interessantissima storia. Nell'attesa lasciamo il lettore a meditare
sul fatto che, nelle più diffuse lingue correntemente parlate,
esistono numerosi termini (anche ingiuriosi) per indicare “colui il
quale non dice la verità”, ma non esiste una singola parola
specifica per indicare chi, invece, dice sistematicamente o anche
occasionalmente la verità (senza omissioni o aggiunte).
Uno
tra i più noti paradossi logici è probabilmente quello del sorite
(letteralmente: mucchio), del quale esistono formulazioni risalenti
al V e IV secolo a.C. attribuite a Zenone di Elea ed Eubulide di
Mileto. Si tratta di uno dei più basilari paradossi riguardanti
l'induzione.
Nella
formulazione originale, si sostiene che un granello (di sabbia, di
miglio o simili) dovrebbe produrre rumore cadendo, poiché un mucchio
(di sabbia, di miglio etc.) produce rumore quando cade.
Equivalentemente, dal fatto che un granello di sabbia non produce
apparentemente rumore quando cade si può erroneamente inferire che
anche un mucchio di sabbia non dovrebbe produrre rumore.
Naturalmente,
dopo venticinque secoli questa formulazione ci appare alquanto
ingenua, e ben poco interessante. Oggi si apprende in età scolare
cosa è un suono, come si origina questa perturbazione meccanica e in
che modo si propaga attraverso i corpi elastici, in tutti i loro
stati di aggregazione macroscopici: solidi, liquidi e gas (inclusa
ovviamente l'aria).
In
questo contesto, di norma, si spiega anche come gli animali in genere
e gli umani in particolare percepiscono i suoni: esiste una soglia di
intensità massima sopportabile, la “soglia del dolore”, che per
l'uomo è pari a 130 dB, e allo stesso modo esiste anche una soglia
di intensità minima, al di sotto della quale nessun suono o rumore
viene percepito, pur essendo la relativa vibrazione presente in
natura e rilevabile tramite appositi strumenti di misura. La soglia
di sensibilità uditiva è un limite di natura, dipende dalla
fisiologia del nostro apparato uditivo e cognitivo, dalla frequenza
del suono, dall'età del soggetto e da numerosi altri fattori.
Questo
fatto riduce il presunto paradosso ad un banale problema di soglia:
un paralogismo che poggia su una ipotesi implicita falsa. E' invece
banalmente vero che anche il singolo granello produce in qualche modo
“rumore” quando tocca il suolo: il fatto è, semplicemente, che
noi non siamo fisicamente in grado di udire tale rumore. D'altro
canto moltissimi animali sono in grado di udire suoni che, per
intensità o frequenza, sfuggono invece alle grossolane testimonianze
dei nostri sensi.
Una
versione senz'altro più interessante del paradosso è invece quella
che chiede “quanti” granelli di sabbia costituiscano un mucchio
(o equivalentemente, “quando” esattamente il girino diventa una
rana, e così via). Qui si potrebbe superficialmente ritenere che il
problema consista nella vaghezza semantica della definizione di
“mucchio”. No: non esiste (ancora) una trattazione della vaghezza
che sciolga questo nodo. Anzi, per (non) tranquillizzare il lettore,
si può anche procedere a ritroso: dato un mucchio di sabbia,
togliamo un granello. Cosa si ottiene ? Ancora un mucchio,
evidentemente. Ripetiamo l'operazione, togliendo un granello di
sabbia per volta. Il sorite è sempre lì, davanti ai nostri occhi !
E cosa accade quando si toglie finalmente l'ultimo granello di sabbia
? Il sorite è scomparso ! Ma era ancora un sorite quando erano
rimasti “pochi” granelli ?
Tra
studenti sanamente goliardici, una volta a conoscenza di questo
paradosso, è da sempre in uso la costruzione di versioni equivalenti
utilizzando termini come “alto”, “basso”, “lungo”,
“corto”, “ricco”, “povero”, “piccolo”, “grande”,
“villoso”, “glabro”... i risultati sono quasi sempre
esilaranti. La base intuitiva non cambia: un millimetro in più non
rende “alto” o “lungo”, un centesimo in più non rende
“ricco” e così via.
E'
certamente chiaro, a questo punto, che il paradosso del sorite espone
capacità utili e divertenti: ad esempio, quella di svillaneggiare
elegantemente alcune insensatezze del modo di esprimersi corrente, o
quella - non meno importante - di evidenziare il carattere
genuinamente paradossale di talune proposte di normazione
quantitativa che abbiamo intravisto solcare l'etere nella scorsa
trentina d'anni.
Oltre
a ciò, in modo forse più sottile, tale paradosso acquisisce anche
maggior dignità ed importanza quando spostiamo l'attenzione su temi
che oggi rivestono enorme interesse scientifico: complessità,
emergenza, auto-organizzazione, riduzionismo. Qui diventa cruciale la
domanda del sorite riformulata: quando esattamente le caratteristiche
di un aggregato complesso (esempi classici: l'alveare, il formicaio,
il cervello...) emergono ed iniziano a superare la mera somma delle
caratteristiche delle singole componenti ? Esiste una “massa
critica” in simili questioni ?
Un
sia pur minimo approfondimento in questo senso richiederebbe
purtroppo ben altri spazi, e una complessità lessicale e concettuale
che supera di gran lunga i limiti divulgativi che qui ci siamo
prefissi. Resti comunque presente l'importanza assunta in questioni
così straordinariamente complesse ed attuali da un paradosso vecchio
di duemilacinquecento anni.
E'
forse opportuno riaffermare chiaramente, come si è cercato fin qui
di mostrare, che paradossi di questo tipo non sono in alcun modo
sconcertanti. Il loro fascino deriva invece dall'abuso che essi fanno
di un tipo di ragionamento estremamente comune, essendo basati su
catene molto lunghe di sillogismi e più in generale sulla induzione,
che nella sua versione sperimentale (ben diversa da quella
matematica) è stata fatta oggetto in anni recenti di numerosi e ben
più elaborati paradossi, atti ad evidenziarne alcune debolezze.
Tuttavia, invece di parlare dei paradossi più specialistici e meno
immediati sull'induzione, come quelli degli smeraldi “blerdi” o
dei corvi neri, preferiamo dedicare il poco spazio rimanente ad un
altro antico paradosso logico, forse il più noto ed importante.
Si
tratta in questo caso di un vero e proprio paradosso fondante, al
quale sono stati dedicati interi testi, lunghi capitoli in saggi
specialistici, e innumerevoli interventi: talmente tanta carta
stampata che, senza particolare sforzo, si possono produrre non meno
di cinquanta pagine dense di riferimenti bibliografici attorno a
questa antinomia, limitandosi solo a testi ed articoli ad oggi
reperibili con facilità in commercio e nelle biblioteche pubbliche.
Questo
dato impressionante è da solo sufficiente ad inquadrare la
dimensione dell'interesse attorno al problema e le energie poste in
campo per la soluzione del cosiddetto “paradosso del mentitore”,
la cui prima formulazione realmente paradossale è dovuta ad Eubulide
di Mileto. Nella forma detta pseudomenon,
il nostro paradosso suona brutalmente come “Io sto mentendo”. E'
facilmente intuibile la trappola logica: se la frase fosse vera, chi
la pronuncia starebbe mentendo, ossia starebbe producendo una frase
non vera. Se d'altro canto fosse falsa, chi la pronuncia dovrebbe
dire la verità, il che (di nuovo) contraddice il contenuto della
frase. Nella variante “Questa frase è falsa” emerge con maggiore
chiarezza l'autoreferenza
(una frase che dice qualcosa di sé stessa), e sparisce nel contempo
il riferimento al parlante, che potrebbe indurre il lettore a
distrarsi con interpretazioni estensionali o contestuali.
Questo
paradosso gode di una giusta fama principalmente a causa dell'enorme
impatto sul lavoro fondazionale in logica e matematica avviato alla
fine del diciannovesimo secolo, ed in particolare sulla definizione
corretta, rigorosa e coerente della nozione di verità e di “asserto
vero”: non solo entro la semantica “addomesticata” e rigorosa
dei linguaggi formali, ma anche nel contesto ordinario e quotidiano
del linguaggio naturale, ossia il linguaggio corrente,
universalistico, non specialistico.
Praticamente
tutti i più importanti logici e filosofi analitici dello scorso
secolo si sono occupati di questa antinomia, in contesti della
massima importanza epistemica: tra i principali dobbiamo citare
almeno Charles S. Peirce, Ernst Schröder, Bertrand Russell, Frank P.
Ramsey, Kurt Gödel, Alfred Tarski, Rudolf Carnap, Willard V.O.
Quine.
Al
paradosso del mentitore è, tra le tante, affine la simpatica
versione divulgativa del fondamentale paradosso insiemistico di
Russell. A tale formulazione, dovuta allo stesso Russell e nota come
“paradosso del barbiere”, spetta anche il merito di avere
evidenziato in modo del tutto esplicito il potere esplosivo di talune
combinazioni di autoriferimento e negazione nel linguaggio naturale.
Si
pensi ad un piccolo villaggio, nel quale vi è un solo barbiere:
egli, per definizione, rade tutti e soli coloro che non radono sé
stessi. La domanda è quindi: chi rade il barbiere ?
Ovviamente
questa forma del paradosso è del tutto innocua: vi sono numerosi e
divertenti metodi per demolire e spazzar via questa versione
divulgativa, a causa delle innumerevoli ambiguità. Ad esempio, il
barbiere potrebbe in realtà essere una signora, o potrebbe non avere
necessità di radersi per qualunque altro motivo (perché etnicamente
o geneticamente glabro, per ragioni religiose, oppure per la semplice
abitudine di portare la barba lunga...): quindi, nessuno rade il
barbiere, e la questione finisce lì. Oppure, secondo quanto
suggerisce un altro grande logico, il geniale Willard Van Orman
Quine, un siffatto barbiere non potrebbe semplicemente esistere,
perché la premessa è autocontraddittoria.
Proprio
a Quine si deve una ulteriore interessantissima riformulazione del
paradosso del mentitore, che si esprime esattamente come segue
(massima attenzione alle virgolette !): “«è falsa quando è
preceduta dalla sua citazione» è falsa quando è preceduta dalla
sua citazione”. Ancora una volta abbiamo una frase che dice di sé
stessa di essere falsa, e in modo particolarmente elegante, grazie ad
un sofisticato gioco di alternanza tra uso e menzione.
Una
trattazione tecnica minimamente seria e storicamente circostanziata
di questo solo paradosso meriterebbe ben altri spazi, fino ad
occupare un intero tomo d'enciclopedia: purtroppo noi siamo invece
costretti a fermarci qui, sperando almeno di avere suscitato
curiosità e qualche reminiscenza. Fino a pochi anni fa non era raro,
infatti, che nei programmi liceali di filosofia (o di matematica) vi
fosse spazio almeno per un accenno a questi temi: noi auspichiamo che
si continui a parlarne oggi, magari anche sulla spinta di
insignificanti stimoli divulgativi come il presente.
Si
rimanda il lettore interessato alla sterminata bibliografia in merito
ai paradossi, della quale qui si propone ben volentieri un minimale
ma significativo assaggio.
Risonanze
bibliografiche:
Raffaele
Aragona, “Enigmatica”, Edizioni Scientifiche Italiane
Stefano
Bartezzaghi, “Lezioni di enigmistica”, Einaudi
Franca
D'Agostini, “Disavventure della verità”, Einaudi
Nicholas
Falletta, “Il libro dei paradossi”, TEA
Ian
Hacking, “Introduzione alla probabilità e alla logica induttiva”,
Il Saggiatore
Gabriele
Lolli, “Il riso di Talete”, Boringhieri
Ubaldo
Nicola, “Sembra ma non è”, Demetra
John
Allen Paulos, “Penso, dunque rido”, Feltrinelli
Massimo
Piattelli Palmarini, “I linguaggi della scienza”, Oscar Mondadori
William
Poundstone, “Labirinti della ragione”, PAN libri
Francesca
Rivetti Barbò, “L'antinomia del mentitore”, Jaca Book
Raymond
Smullyan, “Qual è il titolo di questo libro ?”, Zanichelli