martedì 23 giugno 2009

Print on demand e dintorni

Leggo sul blog di Paolo Attivissimo della sua nuova fatica editoriale, per la quale gli formulo un caloroso "in bocca al lupo".
La sua scelta di una modalità di pubblicazione "non convenzionale" mi stimola a esporre qualche breve riflessione in merito: trovo però più corretto sviluppare il discorso in questa sede anziché abusare dello spazio concesso ai commenti sul suo post.

1) Molti anni fa, non so più dove, avevo letto una proposta genialmente delirante, di quelle memorabili sublimi idiozie talmente controcorrente che possono venire in mente solo a dei geni visionari, spiriti puri e incorrotti.

Esemplifico, col solito fastidioso pizzico di gigioneria.
Tu, editore dal nomone altisonante e magari anke ein poko tetesko jawohl, hai acquistato da un onesto studioso i diritti di un testo fondamentale come "Invarianti di Vasil'ev da un punto di vista computazionale" o "Ermeneutica e semiotica dei rituali riproduttivi in mirmecologia subtropicale". Ne hai vendute ben undici copie in cinque anni, quindi raggiunto su Amazon il prezzo di copertina di 220$ per la "lussuosa" edizione hardcover con CD ROM incluso hai deciso di sospendere la stampa e porre "fuori catalogo" il maraviglioso titolo, linfa vitale per un coraggioso manipolo di esperti sull'intero pianeta. Totale la disperazione di quest'ultimi e dei loro allievi.

Ebbene, la proposta: dopo un periodo "ragionevole" di non ristampa, in forza di legge, vengono i Gendarmi con moschetto e pennacchio (alla Lorenzini, meglio noto come Collodi), prelevano il manoscritto e lo portano ad una casa editrice attrezzata per il print-on-demand, la quale lo renderà disponibile al pubblico interessato a "prezzo politico".
Variante, in stile "spauracchio dell'esproprio proletario": dopo il "ragionevole" lasso di tempo senza ristampe, il testo in PDF viene reso disponibile al pubblico dominio. Analogo, con modifica: diventa un eBook stampabile, a prezzo simbolico. Eccetera.
Alternativa: lo ristampi, digitalmente o in offset se crede, l'editore dal nomone altisonante, con onori e oneri.

In sostanza, miei cari tre lettori, avete capito benissimo il concetto: costringere in punta di diritto l'editore a rimettere e mantenere in circolazione, in un modo o in un altro, il contenuto del testo - senza sotterfugi, alla luce del sole, e senza rimetterci economicamente, donde l'idea del print on demand e/o dell'eBook.

C'è del metodo in questa follia ? Ogni volta che ci penso, e ripenso alle innumerevoli telefonate, alle attese snervanti, ai "Mi spiace, è fuori catalogo, non lo stampano più, il distributore non ne ha altre copie disponibili" che mi sono stati sbattuti in faccia così tante volte, mi vengono i brividi.
La vera evoluzione del "progetto Gutenberg" ?


2) Paolo si chiede "Servono ancora le case editrici" ?
D'istinto lascerei la risposta a questo signore, oppure a questi, e soprattutto ai libri di Tara Brabazon, mia quasi coetanea che ammiro sconfinatamente: i suoi lavori riassumono le mie idee generali riguardo alla triangolazione cultura-libri-web e molto altro, esprimendole enormemente meglio di quanto potrei fare io - vieppiù in questi spazi. Aggiungo, per sovrammisura, anche "I troppi libri" del messicano Zaid Gabriel, edito da Jaca Book: un testo scritto per mostrare come si pubblichino già fin troppi libri...

Ritengo però che la domanda sia mal posta, e lo mostro con una banalissima argomentazione ad consequentiam, un bel condizionale controfattuale: se non vi fosse la selezione delle case editrici, ci sarebbero migliaia di testi stampati autoprodotti senza alcun controllo.
Questo implica che vi sarebbe un'alluvione di robaccia poltacea, anche e soprattutto sui temi patologici e deliranti che lo stesso Attivissimo e alcuni altri si impegnano quotidianamente a demistificare. Con un peggiorativo: se è vero, ISTAT docet, che un buon 62-65% di italiani non leggono neppure un libro all'anno, è altresì vero che la vasta maggioranza della restante minoranza dei "lettori" spesso si limita a leggere proprio libri impresentabili (basti guardare che razza di tebaide del pensiero e dell'intelligenza sono le classifiche dei best seller, vieppiù là dove 'l sì risuona), ma comunque tende a dare maggior credito alla carta stampata che ad altri media.
Ecco quindi che squinternati e complottisti vari avrebbero motivo di cambiare atteggiamento: dalla pubblicazione semiclandestina ed effimera "perché controcorrente e perseguitati", alla "dignità" della carta stampata che renderebbe "più veritiere" le loro sesquipedali corbellerie agli occhi di tanti minus habentes.
E' vero, molte baggianate a ruota libera vengono già stampate, specialmente in settori tutto sommato "innocui" come l'enorme calderone spirituale sincretista newage: qualcuno di mia conoscenza non esiterebbe ad aggiungere che anche molti dipartimenti di filosofia "continentale" dovrebbero dotarsi di (più) cestini. Comunque sia, non è il caso di rincarare la dose abbattendo i limiti di ingresso nel mondo della carta stampata.
Dunque sì, le case editrici servono, come filtro e molto altro: c'è semmai da domandarsi se qualcosa possa essere migliorato nel rapporto autore-editore, e nei dettagli come, cosa, in quale misura.


3) Sempre in relazione a 2), mi sento di fare un omaggio a Monsieur de la Palice.
Ci sono lavori che hanno a malapena bisogno del tocco di un editor professionista, perché già maniacalmente curati e revisionati nella forma e nei contenuti da gruppi di lavoro "spontanei" di altissimo livello. Sto parlando, per intenderci, del modo di lavorare di personaggi come lui.
Tuttavia, questo non vale per la stragrande maggioranza della letteratura, anche tecnica: soprattutto a livello di DTP, impaginazione, veste grafica, aderenza agli standard tecnici, uniformità stilistica, scorrevolezza, leggibilità, varietà lessicale ed altre finezze più o meno formali.
Anche per questo, sì, alcuni servizi professionali tradizionalmente legati alle case editrici servono, e serviranno.


4) A scopo inventariale: adoro il print on demand just-in-time, ma soprattutto sono (stato) cliente di Amazon, B&N, Annabooks, FatBrain eccetera da quando esiste l'e-commerce, e trascorrere ore in libreria o in biblioteca è per me sempre un'esperienza mistica. Giusto per ribadire che le nuove tecnologie sono sempre benvenute, ma nulla può sostituire un libro stampato e ben rilegato.

mercoledì 10 giugno 2009

Non è la mia vetrina...

«Anatole France, quell'acuto e geniale filosofo e romanziere, delizia di tanti delicati lettori, racconta quest'aneddoto.
Alcuni anni fa, dice, visitavo in una grande città d'Europa le gallerie di storia naturale insieme con uno dei conservatori, il quale mi descriveva con la maggior compiacenza gli animali fossili.
Egli mi istruì benissimo fino ai terreni pliocenici; ma, allorché ci trovammo dinanzi ai primi vestigi dell'uomo, volse la testa ed alle mie domande rispose che quella non era la sua vetrina.
Sentii la mia indiscrezione.
Non bisogna mai domandare ad uno scienziato i segreti dell'universo che non sono nella sua vetrina.»

Citazione originale da Vito Volterra, "Giornale degli economisti" 23, Nov. 1901: 436-58, ripreso poi da numerose fonti, ad esempio
Early Mathematical Economics a pag. 326, oppure Contare e raccontare di Bernardini & De Mauro.

Poco più di un secolo dopo la genesi di questo aneddoto, le specializzazioni estreme appaiono ormai sempre più necessarie, inevitabili: nelle scienze come nelle discipline umanistiche e anche in filosofia. Quelle patetiche caricature di intellettuali rinascimentali che sono gli odierni "tuttologi" da
talk show ci sembrano quasi sempre improbabili, ridicoli, molesti.

Tuttavia, a segnare e stimolare la naturale tendenza complementare alla specializzazione, ossia la tensione all'unità del sapere, mi sovviene che nei remoti anni del mio liceo scientifico m'è stato faticosamente insegnato che la "cultura", quella sana, non patologica, dovrebbe significare anche e soprattutto possedere la capacità di riconoscere, categorizzare e collocare in un
sistema di coordinate mentali coerente ciò che conta realmente, le radici della conoscenza complessiva, le pietre miliari del discorso sul mondo, al di sopra e al di là delle (artificiose) barriere disciplinari; allo stesso modo, diviene essenziale saper misurare l'effettiva importanza di ciò che via via si apprende, anche in relazione al resto del panorama conoscitivo già posseduto, allo spazio, al tempo. E non commettere errori grossolani come quello, orribile, di confondere informazione, conoscenza, cultura in un unico indistinto minestrone.

In questo senso si può interpretare, ad esempio, una nota citazione del genio di Ulm: «Lo sviluppo dell'attitudine generale a pensare e giudicare indipendentemente dovrebbe sempre essere al primo posto, non già l'acquisizione di conoscenze specializzate. Se una persona è padrona dei principi fondamentali del proprio settore e ha imparato a pensare e a lavorare indipendentemente, troverà sicuramente la propria strada e inoltre sarà in grado di adattarsi al progresso e ai mutamenti: molto più di una persona la cui istruzione generale consiste principalmente nell'acquisizione di una conoscenza particolareggiata.» (Albert Einstein).

Nella corretta direzione della "decompartimentazione del sapere", in un senso pragmatico assai preciso e non semplicemente incrostato di vani sincretismi di facciata, va allora inteso anche lo sforzo di chi sprona a
sostenere un dialogo aperto tra i titolari delle diverse "vetrine", al fine di aumentare la circolazione delle nude idee e la conoscenza complessiva, usando tutti gli strumenti interdisciplinari e divulgativi a disposizione.

Un'iniziativa esemplare, che merita senz'altro un caloroso plauso, ed un ampio seguito !

La dura vita di un ipocondriaco (nonché rupofobico, cacorrafiafobico, euretofobico, misantropo, filosolipsista... e molto, molto altro)

«It is a most extraordinary thing, but I never read a patent medicine advertisement without being impelled to the conclusion that I am suffering from the particular disease therein dealt with in its most virulent form. The diagnosis seems in every case to correspond exactly with all the sensations that I have ever felt.
I remember going to the British Museum one day to read up the treatment for some slight ailment of which I had a touch - hay fever, I fancy it was. I got down the book, and read all I came to read; and then, in an unthinking moment, I idly turned the leaves, and began to indolently study diseases, generally. I forget which was the first distemper I plunged into - some fearful, devastating scourge, I know - and, before I had glanced half down the list of "premonitory symptoms," it was borne in upon me that I had fairly got it.
I sat for awhile, frozen with horror; and then, in the listlessness of despair, I again turned over the pages. I came to typhoid fever - read the symptoms - discovered that I had typhoid fever, must have had it for months without knowing it - wondered what else I had got; turned up St. Vitus's Dance - found, as I expected, that I had that too, - began to get interested in my case, and determined to sift it to the bottom, and so started alphabetically - read up ague, and learnt that I was sickening for it, and that the acute stage would commence in about another fortnight. Bright's disease, I was relieved to find, I had only in a modified form, and, so far as that was concerned, I might live for years. Cholera I had, with severe complications; and diphtheria I seemed to have been born with. I plodded conscientiously through the twenty-six letters, and the only malady I could conclude I had not got was housemaid's knee.
I felt rather hurt about this at first; it seemed somehow to be a sort of slight. Why hadn't I got housemaid's knee? Why this invidious reservation? After a while, however, less grasping feelings prevailed. I reflected that I had every other known malady in the pharmacology, and I grew less selfish, and determined to do without housemaid's knee. Gout, in its most malignant stage, it would appear, had seized me without my being aware of it; and zymosis I had evidently been suffering with from boyhood. There were no more diseases after zymosis, so I concluded there was nothing else the matter with me.
I sat and pondered. I thought what an interesting case I must be from a medical point of view, what an acquisition I should be to a class! Students would have no need to "walk the hospitals," if they had me. I was a hospital in myself. All they need do would be to walk round me, and, after that, take their diploma.
»

Così l'incipit di uno dei più esilaranti romanzi mai partoriti da mente umana: "Three men in a boat (to say nothing about the dog)" di Jerome K. Jerome - lo scrittore umoristico britannico per antonomasia, assieme naturalmente a P.G. Woodehouse.

Ora, miei pazienti tre lettori, non so voi, ma il sottoscritto - che, a quanto si dice, sembra un incrocio tra il detective Monk e Melvin Udall (interpretato magistralmente da Jack Nicholson in "As good as it gets", inspiegabilmente tradotto come "Qualcosa è cambiato") - pare tenda ad immedesimarsi parecchio in simili descrizioni...

Forse è meno universalmente noto che anche un altro scrittore di lingua inglese,
Bill Bryson (un americano vissuto a lungo in Gran Bretagna e noto come uno dei migliori travel writer), ama calcare la mano sull'autoironica citazione di ipocondria, tanatofobia e altre innocue paranoie assortite: su tutti, sottolineo il suo capolavoro sull'Australia, "In a Sunburned Country" uscito in UK col titolo di "Down Under", dove sortisce effetti comici irrresistibili la sua reiterata e ostentata elencazione (con sublime aplomb) delle "centinaia di modi terribili in cui si può morire in Australia" a causa della fauna selvatica locale: ragni redback, serpenti, coccodrilli, squali, meduse... tutti regolarmente al top delle rispettive classifiche per aggressività e/o velenosità, s'intende.

Ammettere apertamente le proprie debolezze, fino al punto di riderci su, è già una splendida sfaccettatura dell'antieroe che rende aurea la mediocritas: saperne fare un motivo d'ilarità universale è puro genio.