venerdì 26 aprile 2013

Intervista a Francesco Berto

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« I firmly believe that any man's finest hour, the greatest fulfillment of all that he holds dear, is that moment when he has worked his heart out in a good cause and lies exhausted on the field of battle. Victorious. »Vince Lombardi, Head Coach (1913-1970)

Segue l'intervista, già pubblicata su "L'eretico" e relativo sito web (ora irraggiungibile).

1 - Lei ha dichiarato la sua preferenza per i filosofi che "non si prendono troppo sul serio". Nel suo bel manuale introduttivo di logica (un piccolo cameo, leggibile, senza appesantimenti inutili e che colma uno spazio editoriale idealmente vuoto) sottolinea anche che il rigore non può e non deve essere rigor mortis. Questa è la filosofia che ci piace: la stessa di John Allen Paulos che dedica il suo "Penso, dunque rido" al rapporto inscindibile tra filosofia e humour.
Vogliamo approfondire questo tema?

Beh, a volte i filosofi faticano a spiegare ai profani perché uno dovrebbe fare filosofia – specialmente ai profani di un certo tipo (la domanda è: “a cosa serve?”).
C’è una serie di questioni che vengono comunemente etichettate come filosofiche. Sono domande del tipo: Tutta la realtà è materiale o no? L’uomo è immortale o no? Esiste il libero arbitrio? Che cosa possiamo conoscere con certezza? Che cosa sono i numeri? Esistono verità innegabili? Cos’è la verità? Che cos’è il bene? Che cos'è la volontà? Cosa vuol dire che una cosa ne causa un’altra? Cosa vuol dire esistere? Esiste una forma di governo ideale? Esiste Dio? E cos’è questo Dio, se esiste? … Eccetera eccetera eccetera.
E c’è anche un tipo di persone che, o non trova alcun mordente in queste questioni e non riesce a interessarsene;  oppure, anche se se ne interessa, non capisce perché qualcuno dovrebbe dedicarsi a tempo pieno a cercare di rispondere (e soprattutto non capisce perché qualcuno, e specialmente qualche istituzione, dovrebbe dare del danaro a chi svolge questa attività).
Penso che un buon modo per fronteggiare la situazione, da parte di chi invece si occupa di filosofia a tempo più o meno pieno, sia tenere un basso profilo: non pretendere che quello che fa sia eccezionalmente importante per gli altri. Naturalmente, questo non toglie che lo sia per chi lo fa. Quindi “non prendersi troppo sul serio” non vuol dire affatto svaccare (si può dire “svaccare” sulla vostra rivista?); si può essere molto dediti al proprio lavoro filosofico, e anche fieri dei propri risultati, senza pretendere che sia eccezionalmente importante per chiunque.
Questo è il senso che darei a “non prendersi troppo sul serio”. Già è difficile persuadere il tuo prossimo che non sei socialmente disutile… Almeno cerca di non essere anche antipatico!


2 - Visti i suoi interessi, è pressoché inevitabile parlare di Kurt Godel e dei suoi teoremi limitativi. Nonostante sia un nome di primaria importanza scientifica e filosofica, è sconosciuto al grande pubblico. Pare che non vi sia fine ai fraintendimenti (in buona fede) ma anche alle strumentalizzazioni di questi incolpevoli teoremi. Vogliamo provare a sintetizzare per i lettori con un tono accessibile di cosa parlano esattamente questi teoremi, che cosa "limitano" e - soprattutto - di cosa non parlano e cosa non limitano?

Per dimostrare i teoremi di Gödel passo per passo in una classe di logica potrebbe occorrere all’incirca un trimestre; e per spiegarli partendo da zero, potrebbe occorrere un libro. Posso provarci un po’, ma se volete capirci davvero, vi consiglierei (disinterssatamente) di comprarvi una copia di Tutti pazzi per Gödel!
Quelli che si chiamano correntemente Primo e Secondo Teorema di Gödel, o Primo e Secondo Teorema di incompletezza dell’aritmetica (diciamo: G1 e G2), sono due teoremi di logica matematica. Riguardano certi sistemi logico-formali.  Un sistema logico-formale consiste anzitutto in un linguaggio formale, ossia: in un linguaggio artificiale dalla sintassi esattamente definita, ideato a tavolino da logici, matematici, informatici e gente simile, per specifici scopi scientifici.
Su questo linguaggio è impiantato un insieme di regole e principi che consentono di costruire dimostrazioni formali logico-matematiche. Le formule che possono essere dimostrate in un sistema formale si dicono i teoremi di quel sistema.
I sistemi a cui si applicano G1 e G2 sono quelli che sono in grado di esprimere certe verità aritmetiche elementari, riguardanti i numeri naturali (i numeri interi positivi compreso lo zero: 0, 1, 2, 3, …). Si tratta di verità come quelle descritte dai cosiddetti assiomi di Peano: che ogni numero naturale ha un successore, ad esempio (ossia ha un numero che lo segue immediatamente nella serie: 1 è il successore di 0, 2 è il successore di 1, 3 lo è di 2, … , e così via); oppure, che sommando  zero a un numero qualsiasi, si ottiene ancora quel numero.
Sistemi che incorporano formule, le quali traducono nel linguaggio formale questi principi, e che includono un po’ di logica elementare, sono in grado di fare molte cose. Ad esempio, sono in grado di rappresentare tutte le verità aritmetiche dette in gergo ricorsive, perché le includono come teoremi.
Prima di Gödel, la gente si chiedeva se fosse possibile costruire un sistema formale in grado di risolvere tutti i problemi matematici. Il Primo Teorema di Incompletezza, G1, stabilisce che questo non è possibile: dato un qualsiasi sistema formale S in grado di esprimere l’aritmetica elementare, si può sempre trovare qualche formula aritmetica, diciamo g, che il sistema non può dimostrare né refutare. Di fronte alla domanda: g vale o no? Si dà il caso che g o meno? – il sistema non sa “decidersi”: non può né dimostrare una formula del tipo di g, ossia includerla fra i suoi teoremi; né dimostrare la sua negazione non-g, e così refutarla. Siccome ciò vale per qualsiasi sistema formale S abbastanza potente da esprimere l’aritmetica elementare, ne segue che l’aritmetica formalizzata è costitutivamente “incompleta”:  non si potrà mai costruire un sistema formale in grado di decidere tutti i problemi aritmetici e, a fortiori, tutti quelli matematici.
Questo non vuol dire che G1 di per sé attesti che ci sono problemi matematici assolutamente irrisolvibili. L’enunciato g indimostrabile in S può essere dimostrabile in qualche altro sistema, diverso da S, diciamo S1. Sennonché anche S1, cadendo sotto il Primo Teorema di Incompletezza, ha il suo tipo di formula indecidibile, diciamo g1, sicché a sua volta non può decidere tutti i problemi matematici.
Il Secondo Teorema di Incompletezza, G2, stabilisce che una di queste formule, che il qualsiasi sistema S in questione non può dimostrare, è la formula, diciamo k, che esprime nel sistema la coerenza di quello stesso sistema (ovvero il fatto che non vi si possono dedurre contraddizioni). Si tratta di una formula matematica, la cui interpretazione è k = “Il sistema S è coerente”. Detto in breve: il sistema S non può dimostrare la propria coerenza.
Questo non vuol dire che la coerenza dell’aritmetica formalizzata (da sistemi come S) sia una fede, si dice di solito. Infatti, si può provare la coerenza di S in un sistema formale “più potente” (qui ci sarebbe qualche sottigliezza, ma sorvoliamo) di S, diciamo S1. Sennonché, anche a S1 si applicano i Teoremi di Incompletezza, cosicché S1 non può a sua volta dimostrare la propria coerenza. Questa potrà essere provata solo in un sistema S2, … , che però ha lo stesso problema per la propria coerenza; e così via.
Dire cosa segue da questi risultati di Gödel è difficile. In Tutti pazzi per Gödel! ho fatto vedere che alcune cose di sicuro non ne seguono. Ad esempio, non ne segue che non esista una realtà oggettiva; che non ci siano verità incontrovertibili, di tipo religioso o filosofico o matematico; che la mente umana sia superiore a qualsiasi computer che potrà mai essere costruito; che il postmodernismo è l’unica filosofia che ci rimane. Tutte cose che sono state dette davvero.

3 - Cambiamo tema: perché, al di fuori di una pura curiosità intellettuale, interessarsi di filosofia nella concretezza della vita quotidiana...?

Come si è forse inteso dalla replica alla vostra prima domanda, la mia risposta è: non ne ho idea. J   Forse però ha qualche senso interessarsi di cose più specifiche e imparentate, almeno tradizionalmente, alla filosofia.

4 - ...e perché interessarsi di logica?

Ecco una delle cose imparentate, almeno tradizionalmente, alla filosofia, e di cui interessarsi nella concretezza della vita quotidiana. Bisognerebbe interessarsi di logica perché la logica si occupa della correttezza dei ragionamenti (ad esempio: fornisce criteri per distinguere i buoni ragionamenti da quelli cattivi). Uno degli effetti collaterali della logica è che, interessandocene, di solito miglioriamo la nostra capacità di ragionare.
In effetti, non sono neppure un logico (direi che mi occupo di filosofia teoretica, piuttosto). Ma studiare logica, a me, è servito per quello. Lo consiglierei a tutti perché, naturalmente, di solito nella vita è meglio ragionare bene.

5 - Prendiamo spunto da un piccolo collage di citazioni: se Franca D'Agostini privilegia una visione della filosofia come "disciplina dei fondamenti", Michael Dummett si spinge a definire la filosofia come ciò che resta dopo che le scienze, che da essa hanno preso forma, hanno "abbandonato la casa materna". Sulla stessa falsariga, il premio Nobel per la fisica Steven Weinberg parlava di "espropriazione" da parte della fisica delle riflessioni filosofiche su spazio e tempo. Come reagisce Francesco Berto?

Non so cosa sia de iure la filosofia, ma direi che circoscriverla de facto alle domande che restano dopo che si sono tolte via tutte quelle di cui si occupano le scienze è un po’ una fregatura (parlo da sindacalista della categoria, ora).
Ho listato una serie di tipiche domande filosofiche all’inizio di quest’intervista. Alcune forse ce le hanno soffiate le scienze (ma quali? Provate a rileggere la lista e chiedetevi se, secondo voi, qualcuna di quelle domande oggi è un problema ufficialmente risolvibile dalla scienza).
Nel peggiore dei casi, la filosofia ha una tattica per rigenerarsi e restare a galla meglio di un vecchio democristiano. Quando un qualsiasi argomento x le è stato sottratto, può sempre riciclarsi facendo la filosofia di x: “Filosofia delle neuroscienze”; “Filosofia della fisica”; “Filosofia della biologia”, “Filosofia del cyberspazio”; “Filosofia della computazione”; eccetera.
Tipicamente, la gente tenderà allora a chiedersi a cosa servono quelli che fanno la filosofia di queste cose. Consiglierei ai filosofi la risposta di cui sopra: volate basso o, almeno, cercate di non rendervi antipatici!

6 - Proviamo a chiarire per i nostri lettori cosa significa interessarsi di "ontologia degli oggetti materiali"?

Beh, certe cose del mondo sono “oggetti materiali”, il che vuol dire che hanno un certo indirizzo spaziotemporale: occupano un certo spazio, hanno una certa massa, sono sottoposte allo scorrere del tempo e, in linea di principio, potete sbatterci contro, tirargli un calcio o dargli un bacio (anche se magari di fatto non potete farlo, perché sono troppo lontane nello spazio e/o nel tempo perché possiate raggiungerle). Qualche esempio di oggetto materiale: Uma Thurman (col che non intendo trattarla come una donna-oggetto); il laptop su cui sto digitando; i pesci del mare; Ludwig Wittgenstein; e la città di Parigi.
Altre cose non sono oggetti materiali perché non hanno un indirizzo spaziotemporale, non occupano uno spazio, e non potete tirargli un calcio. Qualche esempio: la radice quadrata di due; i concetti; le funzioni ricorsive; la dittatura del proletariato; e i Teoremi di Gödel.
Più o meno tutti i filosofi (con qualche eccezione, Berkeley ad esempio) credono che esistano le cose del primo tipo. Se esistano le seconde è più controverso (Platone pensava di sì ad esempio; Ockham di no).
L’ontologia degli oggetti materiali si occupa delle cose del primo tipo, e affronta domande su quelle cose, del tipo:  hanno tre dimensioni o quattro? (Cioè: sono estese solo nelle tre direzioni dello spazio? O hanno anche una quarta dimensione, ossia sono estese nel tempo e hanno parti temporali, come sembra suggerire la fisica relativistica?); hanno proprietà essenziali, ossia senza le quali non potrebbero esistere? (Ad esempio: sono io essenzialmente un uomo? Potrei io – proprio io, quest’uomo qui che io sono – svegliarmi domattina tramutato in un grosso insetto, come succede a Gregor Samsa ne La metamorfosi?); possono due di quelle cose stare esattamente nello stesso posto nello stesso tempo? (ad esempio: una statua e il pezzo di marmo di cui è fatta sono due cose distinte che stanno nello stesso posto? O si tratta di una cosa sola, descritta in due modi diversi?); e così via.

7 - Parliamo un po' di Wittgenstein: come e perché è il suo filosofo preferito? Quale dei "due o tre" Wittgenstein in particolare?

Wittgenstein è il mio filosofo preferito per ragioni di ammirazione personale: sono sempre stato molto colpito da come è vissuto, dai sui pregi e difetti umani, e da come è morto. Credo anche di identificarmi un po’ col genere di questioni e passioni che lo tormentavano. Il che non vuol dire che abbia un briciolo del suo talento filosofico, o una porzione della sua caratura morale. Però mi piace.
Il cosiddetto “primo Wittgenstein”, naturalmente, non è altro che Wittgenstein, che scrisse il Tractatus logico-philosophicus e altra roba che non pubblicò, in un certo periodo della sua vita. E il cosiddetto “secondo Wittgenstein” non è altro che Wittgenstein in un periodo successivo della sua vita, in cui scrisse, ma non pubblicò, un sacco di altra roba, ritrattando, secondo alcuni, varie cose che aveva scritto nel periodo precedente. (Notate che, se gli oggetti materiali sono quadridimensionali, il primo e il secondo Wittgenstein non sono altro che due porzioni temporali del vermone spaziotemporale in cui Wittgenstein consiste; col che non intendo dare a Wittgenstein del verme, nel caso vi venisse il dubbio).

Scienza semplice: intervista a Lorenzo Farina


Da anni è attiva un'iniziativa decisamente lodevole denominata "Manifesto della scienza semplice". Questa intervista ad uno dei promotori, il professor Lorenzo Farina, intende promuovere tale iniziativa e chiarirne meglio gli scopi e la portata.


Segue l'intervista, già pubblicata su "L'eretico" e relativo sito web (ora irraggiungibile).

1) Entriamo subito in medias res: come vi è venuto in mente di parlare di "scienza semplice" nel bel mezzo dell'era della complessità ? E’ una coraggiosa provocazione ? E' una metafora ? O un vero e proprio paradigma aggiuntivo, una nuova arma intellettuale ? O tutte queste cose insieme?

Il termine “semplice” associato a “scienza” suona come un’eresia, ed in effetti lo è: la scienza è un’attività per nulla semplice – anzi – è complessa e anche complicata, spesso oscura, misteriosa, esoterica, troppo spesso incomprensibile e astrusa. A volte però è meravigliosa, esaltante, sorprendente. Si tratta quindi certamente di una provocazione ma non solo. La “semplicità” nella scienza, come noi la intendiamo, non è tanto una metafora, quanto piuttosto un esigenza stilistica, una presa di posizione “estetica”, un modo per continuare a cercare un'armonia nel mondo senza la pretesa di cercare “verità ultime”. Al di fuori della “semplicità” la scienza si ammala di autoreferenzialità, smette di parlare al mondo e di andare avanti, si ripiega su stessa innamorandosi dei propri stessi metodi. Noi invece sogniamo una scienza aperta, che parli a tutti e sia di tutti, nessuno escluso.

Inoltre, è proprio lo studio dei sistemi complessi che necessita di una scienza semplice poiché sono proprio i sistemi “banali”, come quelli studiati dalla fisica teorica, che consentono una “teoria complessa”, (si veda il volume di Giuliani e Zbilut1). Crediamo infatti che nessuno possa minimamente contestare l’estrema povertà dei sistemi studiati dalla fisica teorica se messi a confronto con la vertiginosa complessità, per esempio, dei sistemi biologici, economici o sociali, come ben ci racconta uno dei maggiori fisici italiani, Marcello Cini2.


2) Chi è lo scienziato semplice che dovrebbe voler sottoscrivere il vostro manifesto ? Potete fornirci un identikit?

Come abbiamo scritto nel sito dedicato la nostro manifesto per una scienza semplice3, lo scienziato semplice è colui il quale percepisce il suo lavoro come quello di un artigiano, proprio come “l’uomo artigiano” rinascimentale di Sennett, che sa fare bene le cose per il proprio piacere e così facendo apre lo strada alle tecniche sofisticate della scienza moderna. Oggi il lavoro artigianale sembra essere dimenticato o, peggio, denigrato dai circoli esclusivi delle accademie e delle istituzioni. Eppure la parte più vitale della scienza non è quella che ripropone vecchie idee con un vestito nuovo, ma quella che sa creare vere novità, che sapientemente miscela conoscenza pratica ed ispirazione teorica, che sa riconoscere il “tocco” personale nelle creazioni e che produce gioia nella comunicazione a tutti del proprio sapere. Non importa la disciplina scientifica di cui si occupa lo scienziato semplice, lui è sempre in grado di occuparsi di cose molto diverse e riesce a passare da un settore all’altro con estrema naturalezza senza sentire minimamente il peso degli artificiosi compartimenti che separano le discipline. Lo scienziato semplice non è necessariamente inserito in qualche istituzione ma anzi, esprime la sua forza vitale senza riguardo per le tecniche già esplorate, già sfruttate, utilizzando con grande libertà qualsiasi metodologia di analisi dei dati che ritenga utile o solo interessante o divertente.

3) Nel vostro Manifesto parlate di eclettismo e di scienziati che operano come singoli individui in modo libero, povero, artigianale, per giunta divertendosi. Non c'è il rischio che qualcuno si risenta e evochi come paragone in negativo la figura del povero Nikola Tesla, defunto nel 1943 e sovente stigmatizzato come l'ultimo scienziato sperimentale e inventore che operò come individuo isolato?

Nikola Tesla non è né il primo né l'ultimo scienziato artigiano, ce ne sono stati e ce ne saranno sempre tantissimi. In effetti, tutti gli scienziati hanno una dimensione artigiana del loro lavoro, anche se magari non è quella che amano mostrare e descrivere in pubblico. Gli scienziati semplici non sono isolati, o almeno non nel senso di essere “misantropi”, anzi l’aspetto collettivo dell’impresa scientifica è sempre presente nel loro lavoro proprio perché non si sentono degli scopritori di verità ultime ma di verità condivise. In questo senso la presenza di una comunità di semplici è molto importante, poiché essi condividono l’aspetto conviviale della conoscenza. Questo atteggiamento è in palese contrasto con la “big science” oggi sempre di più rappresentata dalla biologia molecolare con il suo “progetto genoma” oltre che dalla fisica delle particelle con i giganteschi acceleratori del CERN. Questo modo di fare scienza è decisamente agli antipodi dello scienziato semplice il quale ritiene che le grandi imprese collettive debbano nascere spontaneamente “dal basso” senza grandi finanziamenti o progetti faraonici.


4) Alcuni saggi di grande successo, ad esempio quelli di Paola Borgna e Massimiano Bucchi, evidenziano molte lacune nella comunicazione tra scienza e pubblico, nella costruzione di una immagine corretta da parte dei telespettatori. In che modo il paradigma semplice può intervenire in questa dinamica ?

Certamente l’immagine pubblica della scienza presenta delle palesi contraddizioni. Se da una parte i vari “festival della scienza” si riempiono di frequentatori, le aule universitarie delle facoltà scientifiche si svuotano ogni giorno di più. Anche la comunicazione della scienza risente di questa “spettacolarizzazione” che ricorda moltissimo le “feste elettriche” dell’ottocento dove le nuove scoperte dell’elettricità venivano presentate in modo da generare solo meraviglia e sorpresa, proprio come ad una specie di “circo scientifico”. Il problema fondamentale è che la scienza viene presentata come un’impresa esoterica di grandi eroi solitari e geniali che forniscono soluzioni ai problemi dell’uomo e non come uno strumento d’indagine razionale che permette di farsi “nuove domande” usando la naturale meraviglia che ciascuno di noi ha nello stare al mondo. La scienza semplice ha un profondo carattere artigianale e la comunicazione dei suoi risultati è parte integrante del suo essere. Il “paradigma semplice” permette di superare le barriere fra chi fa ricerca e chi non la fa proprio perché l’aspetto collettivo è al centro delle preoccupazioni dello scienziato semplice.


1 Si veda, a tal proposito, il volume A. Giuliani, P. Zbilut, Simplicity: The Latent Order of Complexity, Nova publishers (2008)
2 M. Cini, Il paradiso perduto: Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi, Feltrinelli (1994)
3 http://www.dis.uniroma1.it/~farina/semplice/

Paradossi e dintorni

C'era una volta una rivista mensile distribuita gratuitamente nei dintorni di Reggio Emilia, Mantova, Modena, Parma. La rivista si chiamava "L'Eretico" che, come doviziosamente ci informava il Direttore, viene dal greco eresia che significa "scelta". Forse poco felice come scelta, poiché il nome veniva sovente storpiato goliardicamente con i più facili e triti calembour: ermetico, emetico, finanche erotico. Felice invece era la scelta di pubblicare contenuti di livello culturale non banale, che negli anni hanno portato la rivista a diffondersi in scuole e circoli culturali, stimolando dibattiti, riflessioni, letture in classe ed altri significativi utilizzi.

La rivista oggi non esiste più da anni, e anche il relativo sito web sembra definitivamente andato a ramengo. Desidero tuttavia ripubblicare qui alcuni contenuti significativi da me proposti a suo tempo, con l'ovvia avvertenza che si tratta di un tipo di divulgazione diverso da quello cui sono abituati i miei quattro lettori: sono articoli e interviste pensate per un range di lettori tipicamente compreso tra lo studente liceale e i suoi insegnanti, per una lettura commentata in classe o in circolo ricreativo, in due parole per chi dell'argomento sente parlare probabilmente per la prima volta in vita sua. Esperimento interessante, e per il sottoscritto inedito ed isolato: a voi giudicarne l'efficacia.

Dopo un primo articolo introduttivo, la seconda uscita era dedicata ai paradossi.

Continuiamo le nostre escursioni turistiche con qualche suggestivo scorcio paesaggistico di un territorio situato nella vastissima intersezione tra la logica, la matematica, la filosofia, le scienze cognitive e l'intrattenimento: i paradossi.

Seguendo l'oramai collaudata impostazione colloquiale, rilassata ed informale, ci sforzeremo di utilizzare un lessico il più possibile elementare, accessibile, non specialistico. Lo scopo è quello di privilegiare in modo sistematico chiarezza, intuitività e semplicità rispetto al rigore formale, rinunciando scientemente a priori ad ogni improponibile pretesa di esaustività ed all'uso di qualsivoglia formalismo simbolico o di concetti e strumenti logico-matematici avanzati.

Per partire subito comme il faut: il presente articolo contiene almeno un errore.
Riflettendo, non c'è alcun bisogno di leggere tutto per sapere che l'affermazione precedente è sicuramente vera: infatti, se ci sono uno o più errori nel resto dell'articolo, la frase descrive banalmente uno stato di fatto, ed è quindi ovviamente vera. Se, al contrario, nel resto dell'articolo non vi sono errori, allora lo sbaglio consiste proprio nell'affermare che vi sono errori: dunque la proposizione rimane vera !
Quella appena presentata è una versione del cosiddetto “paradosso della prefazione”, dovuto al logico D. C. Makinson. Sorprendente ? Sorprendere è esattamente lo scopo della maggior parte dei paradossi. In greco paradoxon significa infatti “contrario all'opinione corrente” oppure “oltre l'apparenza”.

Naturalmente sarebbe indelicato e politicamente scorretto citare, a proposito dell'opinione comune (in greco doxa) e della relativa facilità di contraddirla, lo sferzante aforisma attribuito al filosofo René Guénon: “L'opinione della maggioranza non può essere che l'espressione dell'incompetenza”. E qui siamo andati a cercare un secondo effetto paradossale, stavolta retorico: per dire che non vogliamo parlare di qualcosa, ne abbiamo invece parlato, col sorriso sulle labbra. Insignificante omaggio ad un grande filosofo, Ludwig Wittgenstein.

L'uso ed abuso del termine “paradosso” nel linguaggio mediatico e quotidiano ha, come spesso avviene, un effetto deleterio su una corretta comprensione del concetto. Esistono in realtà numerose specie (anche storiche) di “paradossi”: aporie, antinomie, insolubilia, paralogismi. Vi sono alcuni paradossi fondanti, di grande importanza storica, altri che sono solo banali giocattoli linguistici o grafici, altri ancora - anche tra quelli che sono in giro da secoli - che sono errori logici piuttosto grossolani (paralogismi) oppure risultano frutto di insufficienti conoscenze o cattive comprensioni; paradossi dai quali sono scaturiti rigorosi teoremi o intere riformulazioni meta-teoriche, e “paradossi” il cui unico effetto può essere una sana risata.

Possiamo evitare sbrigativamente tassonomie, etimologie e definizioni cavandocela con una nota boutade: un paradosso è quasi sempre una verità che si presenta a testa in giù, camminando sulle mani, per attirare l'attenzione.

In realtà può risultare interessante classificare i paradossi in maniera funzionale, ossia in base al loro impatto ed al ruolo che assumono:
- Paradossi “logici”: tramite argomenti apparentemente corretti pervengono ad una contraddizione che riduce all'assurdo, negandole, le ipotesi di partenza (spesso implicite e date per scontate nella doxa, nell'opinione comune).

- Paradossi “ontologici”: argomenti e ragionamenti che appaiono contraddittori, sorprendenti, controintuitivi o inusuali, ma che sono rigorosamente conseguenti.

Oltre ai precedenti, esistono anche paradossi che potremmo definire “retorici” o di intrattenimento: ad esempio, un simpatico divertissement letterario o salottiero che di norma si limita ad esibire qualche sottigliezza semantica o logica, o ad evidenziare i nostri limiti cognitivi e sensoriali.

Iniziamo con un aperitivo molto leggero: uno tra i più noti ed elementari paradossi numerici, spesso divulgato sotto forma di indovinello. Esso suona all'incirca come segue: un ricco mercante arabo, morendo, lasciò in eredità ai suoi tre figli i suoi cammelli, ordinando che la metà dei cammelli fosse consegnata al primogenito, un terzo al secondo figlio e un nono al terzo figlio. Si riscontrò però che i cammelli rimasti erano 17, e questo fu ovviamente causa di discussioni tra i fratelli, incapaci di applicare alla lettera la volontà del defunto padre. Alla fine essi decisero di rivolgersi al cadì, il quale saggiamente si presentò con il suo cammello e lo unì agli altri, operando così le divisioni richieste: la metà di diciotto, ovvero nove cammelli al primogenito; un terzo, cioè sei cammelli, al secondo; un nono, ossia due cammelli, al terzo. Avendo distribuito in tutto 9 + 6 + 2 = 17 cammelli, riprese quindi il proprio cammello, e se ne andò tra i ringraziamenti dei figli entusiasti del suo modo di dirimere la questione. La spiegazione di questo fragile “paradosso” è lasciata come semplicissimo esercizio per il lettore.

Un altro divertente paradosso ci è riportato da Aulo Gellio ne "Le notti attiche", ed ha come protagonisti il noto sofista Protagora ed un suo allievo, tale Euatlo o Evatlo. In questa sede, più che all'estremo rigore filologico, siamo ovviamente interessati ai contenuti: vale però la pena di ricordare che esistono varie altre versioni dell'aneddoto, e tra queste alcune citano come protagonisti Corace siracusano e Tisia.
Narra dunque Aulo Gellio che il giovane Euatlo si rivolse a Protagora per essere istruito in retorica forense, così da poter poi intraprendere una carriera da avvocato. Poiché lo studente non possedeva i mezzi per pagare la sua istruzione, il buon Protagora concesse che avrebbe comunque elargito le proprie lezioni, ed il giovane Euatlo lo avrebbe compensato dopo aver vinto la sua prima causa. Avvenne però che Euatlo, dopo aver appreso l'arte forense, decise di dedicarsi ad altra carriera. Tempo dopo il suo antico Maestro lo avvicinò e gli ricordò il suo debito: la risposta di Euatlo fu però negativa. “Maestro, mi permetto di ricordarvi il nostro accordo: avrei pagato dopo aver vinto la mia prima causa. Ma io non ho ancora patrocinato alcuna causa, e men che meno ne ho vinta una: pertanto non vi devo alcunché”.
Protagora si rivolse quindi ai giudici, ai quali spiegò così la questione: “Se Euatlo perde questa causa che gli ho intentato, dovrà in forza di legge versarmi l'onorario dovuto. Se però Euatlo vince, ebbene questa sarà la prima causa che egli vince: secondo il nostro accordo, egli dovrà quindi onorare il suo debito. In ambedue i casi, Euatlo dovrà pagare !”.
Non fu da meno però il giovane allievo: ”Se otterrò ragione in questa causa, ciò significa che Protagora avrà torto, e dunque non gli devo la cifra che egli mi chiede. Se d'altro canto perdo la causa, sarò ancora un avvocato che non ha mai vinto una causa, ed ai sensi del nostro accordo, non dovrò onorare il mio debito !”.

Al di là della piacevolezza letteraria dell'aneddoto, dal punto di vista logico questo paradosso implica solo che le premesse sono incoerenti, in quanto tramite due distinte argomentazioni formalmente corrette si giunge a conclusioni contraddittorie: il che è esattamente il meccanismo della reductio ad absurdum. Tuttavia, quel che rende il problema stimolante dal punto di vista concettuale sono più le ambiguità semantiche e legali.

Ad esempio, Euatlo avrebbe potuto tranquillamente nominare un altro difensore: in questo modo non avrebbe ancora patrocinato (né tantomeno vinto) la sua prima causa, e nessuno avrebbe potuto chiedergli di pagare Protagora sulla base dell'accordo originario. Si sarebbe arroccato in una posizione difensiva pressoché inattaccabile ! Questo però apre ad ulteriori problemi, seppure alquanto sottili: una volta vinta (con buona certezza) tale causa, Euatlo sarebbe stato realmente libero di intraprendere in futuro la professione forense e di vincere una causa senza vedersi nuovamente richiedere il pagamento dal suo antico maestro ? Si poteva forse all'epoca essere processati più volte per il medesimo illecito amministrativo, cassando sentenze precedenti in presenza di “fatti nuovi” ? E via così, in una catena di complicazioni che rende forse meno appetibile l'idea ingenua dell'avvocato terzo ai contendenti.

In realtà il paradosso nelle premesse sussiste a causa della buona fede di Protagora, che subordina il pagamento ad un atto dato implicitamente come l'unico esito possibile: ovvero che il suo allievo intraprenderà effettivamente la carriera forense, il che implica che prima o poi vincerà almeno una causa. Questo fatto, però, non è caratterizzato da elementi di certezza o di automatismo, anzi: dipende interamente dalla volontà di Euatlo. Nella maggior parte delle democrazie moderne una simile clausola in un contratto viene semplicemente considerata nulla per legge, e questo sostanzialmente scioglie il paradosso, dando ragione ai numerosi filosofi che, in varie epoche, hanno sostenuto la tesi della non validità del contratto iniziale.

Per il momento ci siamo (sperabilmente) divertiti, ma non abbiamo ancora avvistato un vero paradosso logico. Gli ingredienti principali di un siffatto paradosso sono infatti notoriamente due: l'autoriferimento e la negazione. Al prossimo aperitivo procureremo quindi d'intervistare virtualmente qualche mentitore di professione, per illustrarci il più noto paradosso di tale “mestiere” e la sua interessantissima storia. Nell'attesa lasciamo il lettore a meditare sul fatto che, nelle più diffuse lingue correntemente parlate, esistono numerosi termini (anche ingiuriosi) per indicare “colui il quale non dice la verità”, ma non esiste una singola parola specifica per indicare chi, invece, dice sistematicamente o anche occasionalmente la verità (senza omissioni o aggiunte).

Uno tra i più noti paradossi logici è probabilmente quello del sorite (letteralmente: mucchio), del quale esistono formulazioni risalenti al V e IV secolo a.C. attribuite a Zenone di Elea ed Eubulide di Mileto. Si tratta di uno dei più basilari paradossi riguardanti l'induzione.

Nella formulazione originale, si sostiene che un granello (di sabbia, di miglio o simili) dovrebbe produrre rumore cadendo, poiché un mucchio (di sabbia, di miglio etc.) produce rumore quando cade. Equivalentemente, dal fatto che un granello di sabbia non produce apparentemente rumore quando cade si può erroneamente inferire che anche un mucchio di sabbia non dovrebbe produrre rumore.
Naturalmente, dopo venticinque secoli questa formulazione ci appare alquanto ingenua, e ben poco interessante. Oggi si apprende in età scolare cosa è un suono, come si origina questa perturbazione meccanica e in che modo si propaga attraverso i corpi elastici, in tutti i loro stati di aggregazione macroscopici: solidi, liquidi e gas (inclusa ovviamente l'aria).
In questo contesto, di norma, si spiega anche come gli animali in genere e gli umani in particolare percepiscono i suoni: esiste una soglia di intensità massima sopportabile, la “soglia del dolore”, che per l'uomo è pari a 130 dB, e allo stesso modo esiste anche una soglia di intensità minima, al di sotto della quale nessun suono o rumore viene percepito, pur essendo la relativa vibrazione presente in natura e rilevabile tramite appositi strumenti di misura. La soglia di sensibilità uditiva è un limite di natura, dipende dalla fisiologia del nostro apparato uditivo e cognitivo, dalla frequenza del suono, dall'età del soggetto e da numerosi altri fattori.
Questo fatto riduce il presunto paradosso ad un banale problema di soglia: un paralogismo che poggia su una ipotesi implicita falsa. E' invece banalmente vero che anche il singolo granello produce in qualche modo “rumore” quando tocca il suolo: il fatto è, semplicemente, che noi non siamo fisicamente in grado di udire tale rumore. D'altro canto moltissimi animali sono in grado di udire suoni che, per intensità o frequenza, sfuggono invece alle grossolane testimonianze dei nostri sensi.
Una versione senz'altro più interessante del paradosso è invece quella che chiede “quanti” granelli di sabbia costituiscano un mucchio (o equivalentemente, “quando” esattamente il girino diventa una rana, e così via). Qui si potrebbe superficialmente ritenere che il problema consista nella vaghezza semantica della definizione di “mucchio”. No: non esiste (ancora) una trattazione della vaghezza che sciolga questo nodo. Anzi, per (non) tranquillizzare il lettore, si può anche procedere a ritroso: dato un mucchio di sabbia, togliamo un granello. Cosa si ottiene ? Ancora un mucchio, evidentemente. Ripetiamo l'operazione, togliendo un granello di sabbia per volta. Il sorite è sempre lì, davanti ai nostri occhi ! E cosa accade quando si toglie finalmente l'ultimo granello di sabbia ? Il sorite è scomparso ! Ma era ancora un sorite quando erano rimasti “pochi” granelli ?
Tra studenti sanamente goliardici, una volta a conoscenza di questo paradosso, è da sempre in uso la costruzione di versioni equivalenti utilizzando termini come “alto”, “basso”, “lungo”, “corto”, “ricco”, “povero”, “piccolo”, “grande”, “villoso”, “glabro”... i risultati sono quasi sempre esilaranti. La base intuitiva non cambia: un millimetro in più non rende “alto” o “lungo”, un centesimo in più non rende “ricco” e così via.
E' certamente chiaro, a questo punto, che il paradosso del sorite espone capacità utili e divertenti: ad esempio, quella di svillaneggiare elegantemente alcune insensatezze del modo di esprimersi corrente, o quella - non meno importante - di evidenziare il carattere genuinamente paradossale di talune proposte di normazione quantitativa che abbiamo intravisto solcare l'etere nella scorsa trentina d'anni.
Oltre a ciò, in modo forse più sottile, tale paradosso acquisisce anche maggior dignità ed importanza quando spostiamo l'attenzione su temi che oggi rivestono enorme interesse scientifico: complessità, emergenza, auto-organizzazione, riduzionismo. Qui diventa cruciale la domanda del sorite riformulata: quando esattamente le caratteristiche di un aggregato complesso (esempi classici: l'alveare, il formicaio, il cervello...) emergono ed iniziano a superare la mera somma delle caratteristiche delle singole componenti ? Esiste una “massa critica” in simili questioni ?
Un sia pur minimo approfondimento in questo senso richiederebbe purtroppo ben altri spazi, e una complessità lessicale e concettuale che supera di gran lunga i limiti divulgativi che qui ci siamo prefissi. Resti comunque presente l'importanza assunta in questioni così straordinariamente complesse ed attuali da un paradosso vecchio di duemilacinquecento anni.
E' forse opportuno riaffermare chiaramente, come si è cercato fin qui di mostrare, che paradossi di questo tipo non sono in alcun modo sconcertanti. Il loro fascino deriva invece dall'abuso che essi fanno di un tipo di ragionamento estremamente comune, essendo basati su catene molto lunghe di sillogismi e più in generale sulla induzione, che nella sua versione sperimentale (ben diversa da quella matematica) è stata fatta oggetto in anni recenti di numerosi e ben più elaborati paradossi, atti ad evidenziarne alcune debolezze. Tuttavia, invece di parlare dei paradossi più specialistici e meno immediati sull'induzione, come quelli degli smeraldi “blerdi” o dei corvi neri, preferiamo dedicare il poco spazio rimanente ad un altro antico paradosso logico, forse il più noto ed importante.
Si tratta in questo caso di un vero e proprio paradosso fondante, al quale sono stati dedicati interi testi, lunghi capitoli in saggi specialistici, e innumerevoli interventi: talmente tanta carta stampata che, senza particolare sforzo, si possono produrre non meno di cinquanta pagine dense di riferimenti bibliografici attorno a questa antinomia, limitandosi solo a testi ed articoli ad oggi reperibili con facilità in commercio e nelle biblioteche pubbliche.
Questo dato impressionante è da solo sufficiente ad inquadrare la dimensione dell'interesse attorno al problema e le energie poste in campo per la soluzione del cosiddetto “paradosso del mentitore”, la cui prima formulazione realmente paradossale è dovuta ad Eubulide di Mileto. Nella forma detta pseudomenon, il nostro paradosso suona brutalmente come “Io sto mentendo”. E' facilmente intuibile la trappola logica: se la frase fosse vera, chi la pronuncia starebbe mentendo, ossia starebbe producendo una frase non vera. Se d'altro canto fosse falsa, chi la pronuncia dovrebbe dire la verità, il che (di nuovo) contraddice il contenuto della frase. Nella variante “Questa frase è falsa” emerge con maggiore chiarezza l'autoreferenza (una frase che dice qualcosa di sé stessa), e sparisce nel contempo il riferimento al parlante, che potrebbe indurre il lettore a distrarsi con interpretazioni estensionali o contestuali.
Questo paradosso gode di una giusta fama principalmente a causa dell'enorme impatto sul lavoro fondazionale in logica e matematica avviato alla fine del diciannovesimo secolo, ed in particolare sulla definizione corretta, rigorosa e coerente della nozione di verità e di “asserto vero”: non solo entro la semantica “addomesticata” e rigorosa dei linguaggi formali, ma anche nel contesto ordinario e quotidiano del linguaggio naturale, ossia il linguaggio corrente, universalistico, non specialistico.
Praticamente tutti i più importanti logici e filosofi analitici dello scorso secolo si sono occupati di questa antinomia, in contesti della massima importanza epistemica: tra i principali dobbiamo citare almeno Charles S. Peirce, Ernst Schröder, Bertrand Russell, Frank P. Ramsey, Kurt Gödel, Alfred Tarski, Rudolf Carnap, Willard V.O. Quine.
Al paradosso del mentitore è, tra le tante, affine la simpatica versione divulgativa del fondamentale paradosso insiemistico di Russell. A tale formulazione, dovuta allo stesso Russell e nota come “paradosso del barbiere”, spetta anche il merito di avere evidenziato in modo del tutto esplicito il potere esplosivo di talune combinazioni di autoriferimento e negazione nel linguaggio naturale.
Si pensi ad un piccolo villaggio, nel quale vi è un solo barbiere: egli, per definizione, rade tutti e soli coloro che non radono sé stessi. La domanda è quindi: chi rade il barbiere ?
Ovviamente questa forma del paradosso è del tutto innocua: vi sono numerosi e divertenti metodi per demolire e spazzar via questa versione divulgativa, a causa delle innumerevoli ambiguità. Ad esempio, il barbiere potrebbe in realtà essere una signora, o potrebbe non avere necessità di radersi per qualunque altro motivo (perché etnicamente o geneticamente glabro, per ragioni religiose, oppure per la semplice abitudine di portare la barba lunga...): quindi, nessuno rade il barbiere, e la questione finisce lì. Oppure, secondo quanto suggerisce un altro grande logico, il geniale Willard Van Orman Quine, un siffatto barbiere non potrebbe semplicemente esistere, perché la premessa è autocontraddittoria.
Proprio a Quine si deve una ulteriore interessantissima riformulazione del paradosso del mentitore, che si esprime esattamente come segue (massima attenzione alle virgolette !): “«è falsa quando è preceduta dalla sua citazione» è falsa quando è preceduta dalla sua citazione”. Ancora una volta abbiamo una frase che dice di sé stessa di essere falsa, e in modo particolarmente elegante, grazie ad un sofisticato gioco di alternanza tra uso e menzione.
Una trattazione tecnica minimamente seria e storicamente circostanziata di questo solo paradosso meriterebbe ben altri spazi, fino ad occupare un intero tomo d'enciclopedia: purtroppo noi siamo invece costretti a fermarci qui, sperando almeno di avere suscitato curiosità e qualche reminiscenza. Fino a pochi anni fa non era raro, infatti, che nei programmi liceali di filosofia (o di matematica) vi fosse spazio almeno per un accenno a questi temi: noi auspichiamo che si continui a parlarne oggi, magari anche sulla spinta di insignificanti stimoli divulgativi come il presente.

Si rimanda il lettore interessato alla sterminata bibliografia in merito ai paradossi, della quale qui si propone ben volentieri un minimale ma significativo assaggio.

Risonanze bibliografiche:
Raffaele Aragona, “Enigmatica”, Edizioni Scientifiche Italiane
Stefano Bartezzaghi, “Lezioni di enigmistica”, Einaudi
Franca D'Agostini, “Disavventure della verità”, Einaudi
Nicholas Falletta, “Il libro dei paradossi”, TEA
Ian Hacking, “Introduzione alla probabilità e alla logica induttiva”, Il Saggiatore
Gabriele Lolli, “Il riso di Talete”, Boringhieri
Ubaldo Nicola, “Sembra ma non è”, Demetra
John Allen Paulos, “Penso, dunque rido”, Feltrinelli
Massimo Piattelli Palmarini, “I linguaggi della scienza”, Oscar Mondadori
William Poundstone, “Labirinti della ragione”, PAN libri
Francesca Rivetti Barbò, “L'antinomia del mentitore”, Jaca Book
Raymond Smullyan, “Qual è il titolo di questo libro ?”, Zanichelli