domenica 5 luglio 2009

Saunders MacLane

Il prossimo 4 di agosto ricorre il centenario della nascita del matematico Saunders Mac Lane, che nella foto qui a fianco vediamo ritratto assieme alla sua signora, in occasione di un convegno sulla Teoria delle Categorie svoltosi a Coimbra, in Portogallo, nel periodo 18-24 luglio 1999 (altre belle foto dell'evento si possono vedere qui).
Aggiungo per comodità alcuni cenni biografici, tratti dal primo sito linkato sopra.
Saunders Mac Lane nacque nel 1909 a Taftville, in Connecticut. Dopo gli studi a Yale e a Chicago, si perfezionò a Gottinga nel periodo 1931-1933, su consiglio dell'allora quasi settantenne E. Moore.
Durante il suo dottorato in Germania venne seguito da Paul Bernays, logico di primissimo piano, e questo certamente influenzò i successivi lavori e l'approccio stesso alla disciplina di Mac Lane.
Purtroppo però il periodo storico non era certo uno dei migliori per trattenersi in Germania, nonostante Gottinga fosse ancora in quegli anni uno dei poli di assoluta eccellenza per la ricerca matematica a livello mondiale.
Lo stesso Mac Lane, in un articolo del 1995, ci dà una vivida descrizione delle sue esperienze in quel periodo, in particolare riferite all'anno 1933.
Dopo aver discusso la tesi di dottorato davanti a Hermann Weyl, Mac Lane tornò in patria, dove trascorse i successivi anni accademici spostandosi in varie università: Yale, Harvard, Cornell, Chicago. Nel 1939 accettò un posto di assistente ad Harvard. In quegli anni lavorò con Garrett Birkhoff al giustamente famoso "A survey of modern algebra", pubblicato nel 1941, un testo introduttivo e al tempo stesso rigoroso che costituì una vera novità nel panorama editoriale dell'epoca. Esiste anche in edizione italiana, col titolo "Algebra" per i tipi di Mursia editore, fin dagli anni Settanta.
Durante la seconda guerra mondiale, Mac Lane lavorò al Dipartimento di Matematica Applicata alla Columbia University.
Nel 1947 divenne poi professore a Chicago, lavorando sotto la direzione di Marshall H. Stone (noto in analisi per il teorema di approssimazione polinomiale uniforme di Stone-Weierstrass). Qui potè cooperare tra l'altro con il notissimo Andre Weil, che fu fondatore del bourbakismo, e con algebristi come Irving Kaplanski e Abraham Albert. Altra collaborazione di assoluto rilievo, e di lunghissima durata, fu quella sviluppata con Samuel Eilenberg: un nome che è quasi naturale sentire citato assieme a quello di Saunders Mac Lane.
Nel 1952 divenne poi capo del Dipartimento, succedendo a Stone.
Il professor Saunders Mac Lane è deceduto nel 2005, dopo una lunga e onorevole carriera.
Senza ricorrere a troppi tecnicismi, ricorderò solo che i suoi primi lavori riguardavano principalmente la teoria dei campi e della valutazione. Ma i suoi massimi contributi, solidamente connessi anche alla sua formazione con Bernays, sono legati alla Teoria delle Categorie, la cui introduzione si deve proprio al suo lavoro.
Telegraficamente, la Teoria delle Categorie (che nasce nell'ambito della topologia algebrica e dell'algebra omologica) fornisce un'impostazione generale per lo studio delle strutture matematiche e delle costruzioni "universali".
In sostanza, con una massiccia dose di lassismo lessicale e facendo ampio ricorso all'intuizione, la si può definire una sorta di "iper-algebra" o metateoria che consente di descrivere e manipolare rigorosamente, in termini simbolici e astratti, qualsiasi altra teoria matematica. Iniziate a sentire una scarica adrenalinica ? Si parla di una potenza concettuale inaudita.
Le varie strutture e "oggetti" matematici (che si tratti di algebre, topologia, analisi funzionale... il "gioco" funziona ugualmente) vengono descritte in termini di funtori aggiunti a strutture intuitive, elementari, rappresentate diagrammaticamente in modo molto efficace e significativo, che evidenzia trasformazioni ed altre proprietà della struttura data. Essenziale notare che il tutto non si riduce ad uno sterile giochino descrittivo di frecce e punti, ma consente di dimostrare rigorosamente (e, devo aggiungere, molto elegantemente) nuovi teoremi e risultati di notevole importanza, del tutto impredicibili prima dell'avvento di questo rivoluzionario approccio.
Il testo di Mac Lane "Categories for the working mathematician" (Springer, 1971, tradotto in italiano da Bollati Boringhieri come "Categorie nella pratica matematica") è una pietra miliare della disciplina. Un libro denso, non facile, pieno di riferimenti avanzati spesso oscuri, ma insostituibile: in questo caso, vale a maggior ragione la considerazione che per apprezzare la potenza e l'eleganza della teoria nel sistematizzare la matematica occorre conoscere già una buona quantità di matematica, e non solo dal punto di vista del calcolo.
Purtroppo, l’importanza e la stessa esistenza della Teoria delle Categorie non sono molto note: anche quando se ne impartiscono alcuni rudimenti, spesso lo studente ne esce con l'impressione che si tratti solo di una tra le tante algebre "strane", il che porta a sottovalutarne l'enorme potenza.
Poiché già vedo i miei tre amici lettori che tentano di sgattaiolare furtivamente verso l'uscio dopo aver inteso parlare di bizzarrie algebriche, voglio chiarire che la teoria non solo ha aspetti di base estremamente intuitivi, euristici e costruttivi, ma ha risvolti della massima importanza anche in informatica, sia teorica che applicata: oltre ai moderni sviluppi di una vera e propria Teoria Computazionale delle Categorie in parallelo a discipline ormai affermate come la topologia computazionale, la TdC permette di costruire un framework solido e rigoroso per la semantica dei linguaggi di programmazione. Menzionerei tra l'altro anche le strette connessioni della teoria con linguaggi potenti e inusuali, come Standard ML o Haskell.
In questo senso, per chi ha competenze e attitudini informatiche, può risultare interessante e utile il capolavoro di semplicità di Maarten Fokkinga, basato su un approccio computazionale e decisamente molto snello, oppure l'agilissimo lavoro introduttivo di Benjamin Pierce "Basic category theory for computer scientists", in pratica due lunghi articoli che in sole 80 e 70 pagine rispettivamente riescono a rispondere a quasi tutte le domande che possano venirvi in mente di primo acchito. Da notare che una impostazione di base categoriale è presente anche in molti testi di matematica discreta, in modo più o meno formalizzato.
Ma non è tutto: come è forse più facile intuire per chi ha una inclinazione filosofica, l'impatto della Teoria delle Categorie è stato notevole anche e soprattutto dal punto di vista dei fondamenti della matematica. Grossolanamente, il concetto suona così: una teoria in grado di descrivere formalmente e di "generare" ogni altra teoria matematica ha sicuramente ottime possibilità di poter essere impiegata per fondare la matematica stessa, a livello della teoria degli insiemi - o, in una versione più radicale, in sostituzione della teoria degli insiemi.
La Teoria delle Categorie offre infatti notevoli vantaggi sulla teoria degli insiemi: vantaggi che (non a caso) chi ha formazione e mentalità di orientamento logico-computazionale è in grado di afferrare e comprendere molto agevolmente.
La sua natura intrinsecamente costruttiva e l'orientamento equazionale offrono infatti l'uniformità tipica delle algebre superiori, in grado di astrarre tutti e soli gli aspetti salienti di strutture e relazioni anche molto diverse tra loro, e spinge a focalizzarsi sugli aspetti dinamici delle relazioni tra le strutture invece di privilegiare il punto di vista statico tipico dell'insiemistica; ma per contro, mantiene grande intuitività, favorisce la razionalizzazione e offre una relativa facilità di manipolazione grazie ai diagrammi ed a procedure di stampo chiaramente algoritmico, costruttivo e discreto.
Ebbene, la luminosa idea di utilizzare la TdC a livello fondazionale è venuta ad esempio al grande logico William Lawvere attorno alla metà degli anni Sessanta, grazie anche ad alcuni lavori seminali di Mac Lane. A Lawvere e Tierney si devono, tra l'altro, il concetto di topos elementare (derivato dal topos, concetto di spazio generalizzato indipendente dalla nozione di punto, dovuto al geniale Alexandre Grothendieck), e le idee di base che consentono di evitare del tutto l'impiego del concetto di appartenenza in teoria degli insiemi o di mostrare la derivazione di tutti i concetti nella teoria logica classica in termini di funtori aggiunti. Ne consegue anche un profondo dibattito sull'adeguatezza e "naturalezza" della TdC a livello fondazionale, sui contenuti e protagonisti del quale sono purtroppo costretto a glissare, menzionando solo il grande logico Feferman tra i primi oppositori al punto di vista di Lawvere. Di certo, da quelle idee e dai primi risultati è scaturito nell'arco di un trentennio l'approccio che oggi è detto "algebrico" in Teoria degli Insiemi (dal titolo di una monografia del 1995 di André Joyal e Ieke Moerdijk), basato appunto sull'uso dei metodi della logica categoriale per creare modelli di teoria degli insiemi - il che tra l'altro ha finora mostrato di essere indipendente dalla teoria Zermelo-Fraenkel classica, e consente di derivare con eleganza estrema i risultati di quasi ogni altro approccio noto in Set Theory, inclusa la teoria di Martin-Löf e varie teorie costruttive.
La TdC e la correlata teoria algebrica degli insiemi sono oggi un po' la Cenerentola nel complesso panorama "classico" della filosofia dei fondamenti della matematica, e tra l'altro vi sono diverse sfaccettature nella definizione della categoria di tutte le categorie (sic!) che rendono la questione ancora non univoca dal punto di vista filosofico. Tuttavia, a mio insignificante avviso la TdC è il più promettente e fecondo punto di vista per una sistemazione fondazionale che possa qualificarsi come "definitiva", stabile, risolutiva di tutte le questioni ancora aperte; allo stesso modo, in parallelo, la matematica "concreta" nel senso di Rota-Knuth e i correlati approcci computazionali alla Wolfram-Chaitin costituiscono sia i più importanti lobi di espansione futuri, sia l'approccio pragmatico e costruttivo realmente unificante in campo logico, matematico, computazionale.
Per chi di voi tre si fosse (sperabilmente) incuriosito, ecco le buone notizie: molti testi intermedi e avanzati in TdC sono disponibili gratuitamente in PDF, grazie ad un lodevole progetto di conservazione e diffusione denominato "Reprints in Theory and Applications of Categories". Pur essendo la disciplina relativamente "giovane" e scarsissimamente divulgata, la bibliografia tecnica in materia è naturalmente piuttosto corposa: si supera tranquillamente il centinaio di volumi e questo elenco, che non include articoli, ne è un buon esempio.
Ulteriori risorse sono visibili a livello di questo repository, uno dei più completi ed autorevoli (non dimenticate di dare un'occhiata anche alla sezione fondazionale sulla teoria degli insiemi).
Mi fermo qui. Vorrei aver trasmesso anche solo una scintilla del mio vivo entusiasmo per questa complessa, potentissima e affascinante disciplina a tutti e tre i miei lettori. Nello scrivere queste poche righe mi rendo conto, non senza sorpresa, che dai miei primi approcci con questa materia sono trascorsi circa venti anni. Il mio cammino pare appena agli inizi.
Grazie, professor Mac Lane. Mi spiace di non potere affidare la mia gratitudine per il suo lavoro ad un mezzo meno indegno e più duraturo.

mercoledì 1 luglio 2009

Guénon e l'oclocrazia dei matti

«C'è un punto, da noi toccato solo incidentalmente nelle pagine che precedono, sul quale è opportuno insistere ancora: si tratta della tendenza alla "volgarizzazione" (e questo è ancora uno di quei termini ben significativi per dipingere la mentalità moderna), cioè della pretesa di porre tutto "alla portata di tutti", che già abbiamo segnalato come una conseguenza delle concezioni "democratiche" e che equivale in definitiva a voler abbassare la conoscenza fino al livello delle intelligenze inferiori.» [René Guénon, "Il regno della quantità e i segni dei tempi", Adelphi - collana Gli Adelphi 346, Milano, 2009, ISBN 9788845923869, pag. 85]


«La mentalità moderna, quindi, è tale da non poter sopportare alcun segreto e nemmeno delle riserve; cose del genere, poiché ne ignora le ragioni, le appaiono soltanto come "privilegi" istituiti a vantaggio di qualcuno, ed essa non può più soffrire alcuna superiorità; se si volesse tentare di spiegarle che i cosiddetti "privilegi" hanno un loro reale fondamento nella natura stessa degli esseri sarebbe fatica sprecata, poiché è proprio questo che il suo "egualitarismo" ostinatamente nega. [...]
Eppure, un mondo in cui tutto fosse diventato "pubblico" avrebbe un carattere veramente mostruoso; [...]
In fondo, l'odio per il segreto non è altro che una delle forme dell'odio per tutto ciò che va al di là del livello "medio" e anche per tutto ciò che si discosta dall'uniformità che si vuole imporre a tutti.» [ibidem, pagg. 88-89]

La prima volta che ho letto questi splendidi saggi di Guénon, dati originariamente alle stampe nel 1945 col titolo "Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps", ero uno studente liceale. Via via che scorrevo con avidità le parole stampate, venivo colto da una inaspettata, crescente sensazione di deja vu.

Mi scoprivo, ad un tempo, impaurito e soddisfatto nel vedere dispiegarsi davanti ai miei occhi, pagina dopo pagina, un edificio di così straordinaria bellezza ed estensione, così stranamente famigliare.

Il mio genuino stupore (che ancora oggi non cessa) era dovuto alla reiterata sorpresa nel constatare che i pilastri di quel maestoso castello teorico, sistemati con grandioso rigore, coincidevano con quelle idee - fino ad allora in me sconnesse, ma già radicate - e con quelle sensazioni così vividamente opprimenti, seppure spesso indefinite, che da anni si affastellavano indipendentemente a formare la mia confusa weltanschauung giovanile. Intendiamoci bene, amici lettori: non sto parlando di quel banale e vago accordo concettuale del quale ognuno di noi ha fatto reiteratamente esperienza, da studente, quando per esigenze di programma si veniva esposti (con cautela, e molti annacquamenti) alle schematizzazioni del pensiero dei grandi, banalizzato e reso digeribile a noialtri studenti liceali. Una simile lapalissianità non meriterebbe neppure menzione.

Parlo invece di una agnizione, di una folgorazione, di una epifania, di un idem sentire: descriverei la mia sensazione, ancor oggi, dicendo che Guénon sembrava aver letto le carte segrete che mai avevo scritto, scoperchiando il vaso di Pandora dei miei pensieri più reconditi e mettendoli su carta con la forza, il rigore e l'icasticità della sua straordinaria prosa.

In quel periodo andò quindi naturaliter maturando in me una forte attrattiva per il pensiero di Guénon, Zolla, Eliade. I miei consueti pomeriggi in biblioteca si affollarono poi, in ordine sparso, di stimoli provenienti da altri autori variamente bollati come "eretici" dal pensiero unico dominante: Evola, Cioran, Celine, Bernanos, Papini, Prezzolini, Palazzeschi, in seguito anche Pareto, Mosca, Michels e molti, molti altri... che regolarmente i compagni di scuola politicamentecorretti e moralmentesuperiori mi suggerivano di ignorare, come era stato loro pavlovianamente imbeccato. Non sanno cosa si sono persi.


Per quel poco che possa interessare, vorrei solo accennare, en passant, che il mio pensiero si differenzia - a volte assai nettamente, fino a divenire antipodale per certi aspetti - dalla grossa nebulosa che racchiude idealmente la visione complessiva degli "antimoderni" tradizionalisti: per restare alle ovvietà e al ça va sans dire, non si può non ripudiare con forza l'antisemitismo che in alcuni punti affiora esplicitamente o che è stato da taluni ravvisato in certe altre pagine, ad esempio; né si può avallare certo antiscientismo teatralizzato, seppure legato alla peculiare prospettiva del discorso - ma ricordo che G. in particolare si e ci diverte sbertucciando e demolendo anche Bergson o Heidegger in maniera deliziosamente rigorosa e feroce, senza dimenticare di inanellare un paio di riferimenti all'artista e occultista Mina Bergson, sorella di Henri, meglio nota come Moina McGregor-Mathers; per gli aspetti più propriamente teoretici, faccio mie buona parte delle critiche magistralmente espresse da Paolo Rossi a Zolla, e molto altro. Ma invero non intendo dilungarmi oltre su questo.

Quel che realmente importa, invece, è che a distanza di tanti anni il fascino di queste parole stilate da Guénon poco dopo il secondo conflitto mondiale rimane per me inalterato, recando seco un po' dell'incanto romantico della gioventù (la mia !). Ancora avverto il bisogno di rileggerle di quando in quando, in questi tempi balordi attraversati da pruriti di oclocrazia, rigurgiti d'infauste ideologie assolutiste illiberali d'ogni colore, complottismo, ottusità al potere e alluvione informativa, in questa società che maltratta e sbeffeggia i suoi aristoi, specialmente in Italia.

Questo è un punto chiave. In che modo il "sistema" sociale e del potere maltratta i "migliori" ? Ad esempio, garantendo meno di 4.000 posti di dottorato all'anno contro gli oltre undicimila della media europea, oppure offrendo solo precarietà e compensi da apprendista metalmeccanico ai giovani ricercatori e quasi nessuna concreta possibilità alle capacità imprenditoriali giovanili, alle spin off, ai circuiti virtuosi tra ricerca e industria sull'esempio di Delft.

Il resto del disastro scolastico-universitario degli ultimi trent'anni, in cifre e non, lo trovate in libreria, nei saggi di Giovanni Floris, in quelli di Felice Froio o di Giorgio Israel, tra i tanti. E naturalmente nei rapporti OCSE, sempre più sconsolanti negli ultimi lustri. Ma, soprattutto, avrete la netta percezione del disastro culturale tendendo l'orecchio nei mezzi e nei luoghi pubblici, o accendendo la televisione, sfogliando certi quotidiani e anche parecchia letteratura "da diporto" e da top ten. Non si può fare a meno di pensare al Nume della critica letteraria Harold Bloom ed alle sue ieratiche, colorite espressioni quando si affrontano questi argomenti: la scomparsa dell'eccellenza, l'abitudine alla mediocrità, il livellamento verso il basso, l'antimeritocrazia al potere.

Ma il "sistema" sociopolitico e mediatico fa anche di peggio. Fornendo modelli sbagliatissimi, dall'effimero successo della TV-spazzatura allo "sportivo" del pallone che riceve ogni anno compensi che superano il fatturato di molte piccole e medie imprese. Avvalorando scale assiologiche demenziali, che relegano agli ultimi posti la cultura, specialmente quella scientifica. E posso continuare il cahier de doléances per due o trecento pagine, ad esempio con un ritratto tinte fosche dello spaventoso e gattopardesco immobilismo sociale e aziendale italiota, citando a concause la gerontocrazia, l'assenza totale di una infrastruttura nazionale di lifelong learning, la lottizzazione, le troppe barriere invisibili (quelle vere, non le balordaggini ideologiche delle minoranze isteriche del glass roof) e mille altri cavalli di Frisia e "ostacoli architettonici" che dimostrano quantomeno poca attenzione sociale, quando non vivo ostruzionismo o cooptazione predeterminata, nei confronti delle nostre migliori menti. Qui il discorso scivolerebbe con totale naturalezza sulla dittatura degli imbecilli, per dirla con Pino Aprile, sulla prevalenza del cretino, sui misfatti sociali della stupidità umana così finemente analizzata da Carlo Maria Cipolla. E non si può non pensare alla tagliente analisi di William A. Henry III in quel capolavoro assoluto che troverete sempre appoggiato sul mio comodino: "In difesa dell'elitarismo". Mi fermo qui, obtorto collo.

Citerei ancora, a proposito, solo la poco quantificabile (ma non meno temibile) mentalità di livorosa invidia, aggressività verbale e volontà di malintesa rivalsa sociale di taluni nei confronti di chiunque sembri avere anche solo un'ombra dei "privilegi" dei quali parla Guénon.

Privilegi che - sia chiarissimo, inequivocabile - sono tutt'altra cosa rispetto ai "privilegi" materiali dei ricchi e neoricchi, degli habentes più o meno "parvenu" (si pensi ad esempio ai casi descritti in "Chic" di Gian Antonio Stella e in "Nove zeri" di Paolo Madron) o a quelli indebiti delle varie caste, altrecaste, ultracaste denunciati dagli altri noti pamphlet che ormai da tempo impazzano nelle librerie, ma noti sintomaticamente fin dagli anni Ottanta agli osservatori più attenti e meglio informati.


Tornando a Guénon, il potere predittivo di quei saggi fuori dal tempo appare oggi ancora più palese, se solo si mette a margine la valenza semantica di primo piano. Sì, perché René Guénon (chiedo venia a chi, tra i miei tre lettori, lo sa già benissimo) ha dedicato la propria esistenza e la propria ricerca alla tradizione mistico-sapienziale: dunque il "segreto" cui si riferisce implicitamente in queste righe è innanzi tutto di tipo mistico e iniziatico. I suoi aristoi, a ben guardare, restano quasi sempre ampiamente sovrapponibili con le definizioni di Hans Eysenck e della scuola "innatista", e sono del tutto compatibili con le dinamiche sociali paretiane.

Ma non c'è solo il livello superficiale, il più ovvio: la provocazione della rilettura di oggi è proprio questa. Appare straordinario come la forza e la pregnanza di quelle constatazioni, di quelle asserzioni apodittiche, di quei giudizi di valore così netti rimanga pressoché inalterata anche passando al piano metaforico, alle intepretazioni estensionali.

Ad esempio, pensiamo per esercizio di riferire le pagine esemplificate supra all'attitudine "moderna" (in particolare di certe correnti ideologiche e di certi sottogruppi antropologici spontanei) nei confronti dei necessari segreti diplomatici e di Stato, oppure di alcuni normalissimi segreti industriali.

Ecco allora che vediamo meglio tratti così caratteristici di questo periodo di basso impero: fior di babbei a berciare che i vertici istituzionali dovrebbero render pubbliche queste o quelle informazioni necessariamente secretate per ragion di Stato, a soddisfare i più futili pruriti - ad esempio, per smentire le balorde insinuazioni sulle cosiddette "versioni ufficiali" o per demolire l'ennesimo delirio cospirazionista, invertendo l'onere della prova. Siamo al vaniloquio puro.

In questo modo il passo dalla sacrosanta trasparenza istituzionale (a tutti i livelli) alla pura ficcanasaggine o a pretese in odore d'ordalia diviene breve, brevissimo. Fin troppo tipico dell'oclocrazia e del giacobinismo, della paranoica cultura del sospetto, dello svilimento di ogni valore.

Il primo motore immobile, naturalmente, è quella "volgarizzazione" evidenziata nel primo paragrafo, l'ottuso bricolage cognitivo delle masse: Guénon si riferiva chiaramente ed in primissimo luogo a volgarizzazioni (occidentali) del corpus sapienziale, mode stagionali dell'esoterismo occultista, religiosità popolare, spettacolarizzazioni di ispirazione tardo ottocentesca, prodromi e antenati della newage (sai che novità).

Nella nostra modestissima rilettura estesa, ciò assume invece i mostruosi connotati di quell'orripilante, ribollente pastiche di attacchi continui alla complessità del reale, cattiva divulgazione, relativismo sfrenato, informazione fai-da-te e deliri di ogni tipo riversati incontrollatamente a getto continuo nei bassifondi della Rete, "alternative pop" basate su leggende urbane e spiegazioni semplici-ma-sbagliate. E alla via così, a vele spiegate, in un mare di fregnacce non indegne di una trama di Ionesco.


La caratterizzazione del proprio gruppuscolo preferito di {attivisti, complottisti, dietrologi, paranoici, alienati, sciroccati, ...} in relazione all'uso e all'abuso della retorica del "sovvertimento dell'asimmetria informativa", della "abolizione del segreto", della volgarizzazione e dell'errore concettuale sistematico spacciato per diffusione di "conoscenza" è lasciata come semplicissimo esercizio per il lettore.


Già che ci siamo, e scusate la lungaggine ma proprio non ho tempo di far più breve questo post (Sciascia docet), mi scappa un altro promemoria: se capitate in biblioteca, date un'occhiata a Sandro Segre, "Weber Mosca Pareto", Franco Angeli, e ai bei lavori critici di Piero di Vona su Guénon.

Un aforisma...

«Per il potente la conoscenza è oggetto di disprezzo, o di curiosità, o di ornamento: soltanto la vittima ne ha fame e bisogno.»
Elémire Zolla

martedì 23 giugno 2009

Print on demand e dintorni

Leggo sul blog di Paolo Attivissimo della sua nuova fatica editoriale, per la quale gli formulo un caloroso "in bocca al lupo".
La sua scelta di una modalità di pubblicazione "non convenzionale" mi stimola a esporre qualche breve riflessione in merito: trovo però più corretto sviluppare il discorso in questa sede anziché abusare dello spazio concesso ai commenti sul suo post.

1) Molti anni fa, non so più dove, avevo letto una proposta genialmente delirante, di quelle memorabili sublimi idiozie talmente controcorrente che possono venire in mente solo a dei geni visionari, spiriti puri e incorrotti.

Esemplifico, col solito fastidioso pizzico di gigioneria.
Tu, editore dal nomone altisonante e magari anke ein poko tetesko jawohl, hai acquistato da un onesto studioso i diritti di un testo fondamentale come "Invarianti di Vasil'ev da un punto di vista computazionale" o "Ermeneutica e semiotica dei rituali riproduttivi in mirmecologia subtropicale". Ne hai vendute ben undici copie in cinque anni, quindi raggiunto su Amazon il prezzo di copertina di 220$ per la "lussuosa" edizione hardcover con CD ROM incluso hai deciso di sospendere la stampa e porre "fuori catalogo" il maraviglioso titolo, linfa vitale per un coraggioso manipolo di esperti sull'intero pianeta. Totale la disperazione di quest'ultimi e dei loro allievi.

Ebbene, la proposta: dopo un periodo "ragionevole" di non ristampa, in forza di legge, vengono i Gendarmi con moschetto e pennacchio (alla Lorenzini, meglio noto come Collodi), prelevano il manoscritto e lo portano ad una casa editrice attrezzata per il print-on-demand, la quale lo renderà disponibile al pubblico interessato a "prezzo politico".
Variante, in stile "spauracchio dell'esproprio proletario": dopo il "ragionevole" lasso di tempo senza ristampe, il testo in PDF viene reso disponibile al pubblico dominio. Analogo, con modifica: diventa un eBook stampabile, a prezzo simbolico. Eccetera.
Alternativa: lo ristampi, digitalmente o in offset se crede, l'editore dal nomone altisonante, con onori e oneri.

In sostanza, miei cari tre lettori, avete capito benissimo il concetto: costringere in punta di diritto l'editore a rimettere e mantenere in circolazione, in un modo o in un altro, il contenuto del testo - senza sotterfugi, alla luce del sole, e senza rimetterci economicamente, donde l'idea del print on demand e/o dell'eBook.

C'è del metodo in questa follia ? Ogni volta che ci penso, e ripenso alle innumerevoli telefonate, alle attese snervanti, ai "Mi spiace, è fuori catalogo, non lo stampano più, il distributore non ne ha altre copie disponibili" che mi sono stati sbattuti in faccia così tante volte, mi vengono i brividi.
La vera evoluzione del "progetto Gutenberg" ?


2) Paolo si chiede "Servono ancora le case editrici" ?
D'istinto lascerei la risposta a questo signore, oppure a questi, e soprattutto ai libri di Tara Brabazon, mia quasi coetanea che ammiro sconfinatamente: i suoi lavori riassumono le mie idee generali riguardo alla triangolazione cultura-libri-web e molto altro, esprimendole enormemente meglio di quanto potrei fare io - vieppiù in questi spazi. Aggiungo, per sovrammisura, anche "I troppi libri" del messicano Zaid Gabriel, edito da Jaca Book: un testo scritto per mostrare come si pubblichino già fin troppi libri...

Ritengo però che la domanda sia mal posta, e lo mostro con una banalissima argomentazione ad consequentiam, un bel condizionale controfattuale: se non vi fosse la selezione delle case editrici, ci sarebbero migliaia di testi stampati autoprodotti senza alcun controllo.
Questo implica che vi sarebbe un'alluvione di robaccia poltacea, anche e soprattutto sui temi patologici e deliranti che lo stesso Attivissimo e alcuni altri si impegnano quotidianamente a demistificare. Con un peggiorativo: se è vero, ISTAT docet, che un buon 62-65% di italiani non leggono neppure un libro all'anno, è altresì vero che la vasta maggioranza della restante minoranza dei "lettori" spesso si limita a leggere proprio libri impresentabili (basti guardare che razza di tebaide del pensiero e dell'intelligenza sono le classifiche dei best seller, vieppiù là dove 'l sì risuona), ma comunque tende a dare maggior credito alla carta stampata che ad altri media.
Ecco quindi che squinternati e complottisti vari avrebbero motivo di cambiare atteggiamento: dalla pubblicazione semiclandestina ed effimera "perché controcorrente e perseguitati", alla "dignità" della carta stampata che renderebbe "più veritiere" le loro sesquipedali corbellerie agli occhi di tanti minus habentes.
E' vero, molte baggianate a ruota libera vengono già stampate, specialmente in settori tutto sommato "innocui" come l'enorme calderone spirituale sincretista newage: qualcuno di mia conoscenza non esiterebbe ad aggiungere che anche molti dipartimenti di filosofia "continentale" dovrebbero dotarsi di (più) cestini. Comunque sia, non è il caso di rincarare la dose abbattendo i limiti di ingresso nel mondo della carta stampata.
Dunque sì, le case editrici servono, come filtro e molto altro: c'è semmai da domandarsi se qualcosa possa essere migliorato nel rapporto autore-editore, e nei dettagli come, cosa, in quale misura.


3) Sempre in relazione a 2), mi sento di fare un omaggio a Monsieur de la Palice.
Ci sono lavori che hanno a malapena bisogno del tocco di un editor professionista, perché già maniacalmente curati e revisionati nella forma e nei contenuti da gruppi di lavoro "spontanei" di altissimo livello. Sto parlando, per intenderci, del modo di lavorare di personaggi come lui.
Tuttavia, questo non vale per la stragrande maggioranza della letteratura, anche tecnica: soprattutto a livello di DTP, impaginazione, veste grafica, aderenza agli standard tecnici, uniformità stilistica, scorrevolezza, leggibilità, varietà lessicale ed altre finezze più o meno formali.
Anche per questo, sì, alcuni servizi professionali tradizionalmente legati alle case editrici servono, e serviranno.


4) A scopo inventariale: adoro il print on demand just-in-time, ma soprattutto sono (stato) cliente di Amazon, B&N, Annabooks, FatBrain eccetera da quando esiste l'e-commerce, e trascorrere ore in libreria o in biblioteca è per me sempre un'esperienza mistica. Giusto per ribadire che le nuove tecnologie sono sempre benvenute, ma nulla può sostituire un libro stampato e ben rilegato.

mercoledì 10 giugno 2009

Non è la mia vetrina...

«Anatole France, quell'acuto e geniale filosofo e romanziere, delizia di tanti delicati lettori, racconta quest'aneddoto.
Alcuni anni fa, dice, visitavo in una grande città d'Europa le gallerie di storia naturale insieme con uno dei conservatori, il quale mi descriveva con la maggior compiacenza gli animali fossili.
Egli mi istruì benissimo fino ai terreni pliocenici; ma, allorché ci trovammo dinanzi ai primi vestigi dell'uomo, volse la testa ed alle mie domande rispose che quella non era la sua vetrina.
Sentii la mia indiscrezione.
Non bisogna mai domandare ad uno scienziato i segreti dell'universo che non sono nella sua vetrina.»

Citazione originale da Vito Volterra, "Giornale degli economisti" 23, Nov. 1901: 436-58, ripreso poi da numerose fonti, ad esempio
Early Mathematical Economics a pag. 326, oppure Contare e raccontare di Bernardini & De Mauro.

Poco più di un secolo dopo la genesi di questo aneddoto, le specializzazioni estreme appaiono ormai sempre più necessarie, inevitabili: nelle scienze come nelle discipline umanistiche e anche in filosofia. Quelle patetiche caricature di intellettuali rinascimentali che sono gli odierni "tuttologi" da
talk show ci sembrano quasi sempre improbabili, ridicoli, molesti.

Tuttavia, a segnare e stimolare la naturale tendenza complementare alla specializzazione, ossia la tensione all'unità del sapere, mi sovviene che nei remoti anni del mio liceo scientifico m'è stato faticosamente insegnato che la "cultura", quella sana, non patologica, dovrebbe significare anche e soprattutto possedere la capacità di riconoscere, categorizzare e collocare in un
sistema di coordinate mentali coerente ciò che conta realmente, le radici della conoscenza complessiva, le pietre miliari del discorso sul mondo, al di sopra e al di là delle (artificiose) barriere disciplinari; allo stesso modo, diviene essenziale saper misurare l'effettiva importanza di ciò che via via si apprende, anche in relazione al resto del panorama conoscitivo già posseduto, allo spazio, al tempo. E non commettere errori grossolani come quello, orribile, di confondere informazione, conoscenza, cultura in un unico indistinto minestrone.

In questo senso si può interpretare, ad esempio, una nota citazione del genio di Ulm: «Lo sviluppo dell'attitudine generale a pensare e giudicare indipendentemente dovrebbe sempre essere al primo posto, non già l'acquisizione di conoscenze specializzate. Se una persona è padrona dei principi fondamentali del proprio settore e ha imparato a pensare e a lavorare indipendentemente, troverà sicuramente la propria strada e inoltre sarà in grado di adattarsi al progresso e ai mutamenti: molto più di una persona la cui istruzione generale consiste principalmente nell'acquisizione di una conoscenza particolareggiata.» (Albert Einstein).

Nella corretta direzione della "decompartimentazione del sapere", in un senso pragmatico assai preciso e non semplicemente incrostato di vani sincretismi di facciata, va allora inteso anche lo sforzo di chi sprona a
sostenere un dialogo aperto tra i titolari delle diverse "vetrine", al fine di aumentare la circolazione delle nude idee e la conoscenza complessiva, usando tutti gli strumenti interdisciplinari e divulgativi a disposizione.

Un'iniziativa esemplare, che merita senz'altro un caloroso plauso, ed un ampio seguito !

La dura vita di un ipocondriaco (nonché rupofobico, cacorrafiafobico, euretofobico, misantropo, filosolipsista... e molto, molto altro)

«It is a most extraordinary thing, but I never read a patent medicine advertisement without being impelled to the conclusion that I am suffering from the particular disease therein dealt with in its most virulent form. The diagnosis seems in every case to correspond exactly with all the sensations that I have ever felt.
I remember going to the British Museum one day to read up the treatment for some slight ailment of which I had a touch - hay fever, I fancy it was. I got down the book, and read all I came to read; and then, in an unthinking moment, I idly turned the leaves, and began to indolently study diseases, generally. I forget which was the first distemper I plunged into - some fearful, devastating scourge, I know - and, before I had glanced half down the list of "premonitory symptoms," it was borne in upon me that I had fairly got it.
I sat for awhile, frozen with horror; and then, in the listlessness of despair, I again turned over the pages. I came to typhoid fever - read the symptoms - discovered that I had typhoid fever, must have had it for months without knowing it - wondered what else I had got; turned up St. Vitus's Dance - found, as I expected, that I had that too, - began to get interested in my case, and determined to sift it to the bottom, and so started alphabetically - read up ague, and learnt that I was sickening for it, and that the acute stage would commence in about another fortnight. Bright's disease, I was relieved to find, I had only in a modified form, and, so far as that was concerned, I might live for years. Cholera I had, with severe complications; and diphtheria I seemed to have been born with. I plodded conscientiously through the twenty-six letters, and the only malady I could conclude I had not got was housemaid's knee.
I felt rather hurt about this at first; it seemed somehow to be a sort of slight. Why hadn't I got housemaid's knee? Why this invidious reservation? After a while, however, less grasping feelings prevailed. I reflected that I had every other known malady in the pharmacology, and I grew less selfish, and determined to do without housemaid's knee. Gout, in its most malignant stage, it would appear, had seized me without my being aware of it; and zymosis I had evidently been suffering with from boyhood. There were no more diseases after zymosis, so I concluded there was nothing else the matter with me.
I sat and pondered. I thought what an interesting case I must be from a medical point of view, what an acquisition I should be to a class! Students would have no need to "walk the hospitals," if they had me. I was a hospital in myself. All they need do would be to walk round me, and, after that, take their diploma.
»

Così l'incipit di uno dei più esilaranti romanzi mai partoriti da mente umana: "Three men in a boat (to say nothing about the dog)" di Jerome K. Jerome - lo scrittore umoristico britannico per antonomasia, assieme naturalmente a P.G. Woodehouse.

Ora, miei pazienti tre lettori, non so voi, ma il sottoscritto - che, a quanto si dice, sembra un incrocio tra il detective Monk e Melvin Udall (interpretato magistralmente da Jack Nicholson in "As good as it gets", inspiegabilmente tradotto come "Qualcosa è cambiato") - pare tenda ad immedesimarsi parecchio in simili descrizioni...

Forse è meno universalmente noto che anche un altro scrittore di lingua inglese,
Bill Bryson (un americano vissuto a lungo in Gran Bretagna e noto come uno dei migliori travel writer), ama calcare la mano sull'autoironica citazione di ipocondria, tanatofobia e altre innocue paranoie assortite: su tutti, sottolineo il suo capolavoro sull'Australia, "In a Sunburned Country" uscito in UK col titolo di "Down Under", dove sortisce effetti comici irrresistibili la sua reiterata e ostentata elencazione (con sublime aplomb) delle "centinaia di modi terribili in cui si può morire in Australia" a causa della fauna selvatica locale: ragni redback, serpenti, coccodrilli, squali, meduse... tutti regolarmente al top delle rispettive classifiche per aggressività e/o velenosità, s'intende.

Ammettere apertamente le proprie debolezze, fino al punto di riderci su, è già una splendida sfaccettatura dell'antieroe che rende aurea la mediocritas: saperne fare un motivo d'ilarità universale è puro genio.