«La mentalità moderna, quindi, è tale da non poter sopportare alcun segreto e nemmeno delle riserve; cose del genere, poiché ne ignora le ragioni, le appaiono soltanto come "privilegi" istituiti a vantaggio di qualcuno, ed essa non può più soffrire alcuna superiorità; se si volesse tentare di spiegarle che i cosiddetti "privilegi" hanno un loro reale fondamento nella natura stessa degli esseri sarebbe fatica sprecata, poiché è proprio questo che il suo "egualitarismo" ostinatamente nega. [...]
Eppure, un mondo in cui tutto fosse diventato "pubblico" avrebbe un carattere veramente mostruoso; [...]
In fondo, l'odio per il segreto non è altro che una delle forme dell'odio per tutto ciò che va al di là del livello "medio" e anche per tutto ciò che si discosta dall'uniformità che si vuole imporre a tutti.» [ibidem, pagg. 88-89]
La prima volta che ho letto questi splendidi saggi di Guénon, dati originariamente alle stampe nel 1945 col titolo "Le Règne de la Quantité et les Signes des Temps", ero uno studente liceale. Via via che scorrevo con avidità le parole stampate, venivo colto da una inaspettata, crescente sensazione di deja vu.
Mi scoprivo, ad un tempo, impaurito e soddisfatto nel vedere dispiegarsi davanti ai miei occhi, pagina dopo pagina, un edificio di così straordinaria bellezza ed estensione, così stranamente famigliare.
Il mio genuino stupore (che ancora oggi non cessa) era dovuto alla reiterata sorpresa nel constatare che i pilastri di quel maestoso castello teorico, sistemati con grandioso rigore, coincidevano con quelle idee - fino ad allora in me sconnesse, ma già radicate - e con quelle sensazioni così vividamente opprimenti, seppure spesso indefinite, che da anni si affastellavano indipendentemente a formare la mia confusa weltanschauung giovanile. Intendiamoci bene, amici lettori: non sto parlando di quel banale e vago accordo concettuale del quale ognuno di noi ha fatto reiteratamente esperienza, da studente, quando per esigenze di programma si veniva esposti (con cautela, e molti annacquamenti) alle schematizzazioni del pensiero dei grandi, banalizzato e reso digeribile a noialtri studenti liceali. Una simile lapalissianità non meriterebbe neppure menzione.
Parlo invece di una agnizione, di una folgorazione, di una epifania, di un idem sentire: descriverei la mia sensazione, ancor oggi, dicendo che Guénon sembrava aver letto le carte segrete che mai avevo scritto, scoperchiando il vaso di Pandora dei miei pensieri più reconditi e mettendoli su carta con la forza, il rigore e l'icasticità della sua straordinaria prosa.
In quel periodo andò quindi naturaliter maturando in me una forte attrattiva per il pensiero di Guénon, Zolla, Eliade. I miei consueti pomeriggi in biblioteca si affollarono poi, in ordine sparso, di stimoli provenienti da altri autori variamente bollati come "eretici" dal pensiero unico dominante: Evola, Cioran, Celine, Bernanos, Papini, Prezzolini, Palazzeschi, in seguito anche Pareto, Mosca, Michels e molti, molti altri... che regolarmente i compagni di scuola politicamentecorretti e moralmentesuperiori mi suggerivano di ignorare, come era stato loro pavlovianamente imbeccato. Non sanno cosa si sono persi.
Per quel poco che possa interessare, vorrei solo accennare, en passant, che il mio pensiero si differenzia - a volte assai nettamente, fino a divenire antipodale per certi aspetti - dalla grossa nebulosa che racchiude idealmente la visione complessiva degli "antimoderni" tradizionalisti: per restare alle ovvietà e al ça va sans dire, non si può non ripudiare con forza l'antisemitismo che in alcuni punti affiora esplicitamente o che è stato da taluni ravvisato in certe altre pagine, ad esempio; né si può avallare certo antiscientismo teatralizzato, seppure legato alla peculiare prospettiva del discorso - ma ricordo che G. in particolare si e ci diverte sbertucciando e demolendo anche Bergson o Heidegger in maniera deliziosamente rigorosa e feroce, senza dimenticare di inanellare un paio di riferimenti all'artista e occultista Mina Bergson, sorella di Henri, meglio nota come Moina McGregor-Mathers; per gli aspetti più propriamente teoretici, faccio mie buona parte delle critiche magistralmente espresse da Paolo Rossi a Zolla, e molto altro. Ma invero non intendo dilungarmi oltre su questo.
Quel che realmente importa, invece, è che a distanza di tanti anni il fascino di queste parole stilate da Guénon poco dopo il secondo conflitto mondiale rimane per me inalterato, recando seco un po' dell'incanto romantico della gioventù (la mia !). Ancora avverto il bisogno di rileggerle di quando in quando, in questi tempi balordi attraversati da pruriti di oclocrazia, rigurgiti d'infauste ideologie assolutiste illiberali d'ogni colore, complottismo, ottusità al potere e alluvione informativa, in questa società che maltratta e sbeffeggia i suoi aristoi, specialmente in Italia.
Questo è un punto chiave. In che modo il "sistema" sociale e del potere maltratta i "migliori" ? Ad esempio, garantendo meno di 4.000 posti di dottorato all'anno contro gli oltre undicimila della media europea, oppure offrendo solo precarietà e compensi da apprendista metalmeccanico ai giovani ricercatori e quasi nessuna concreta possibilità alle capacità imprenditoriali giovanili, alle spin off, ai circuiti virtuosi tra ricerca e industria sull'esempio di Delft.
Il resto del disastro scolastico-universitario degli ultimi trent'anni, in cifre e non, lo trovate in libreria, nei saggi di Giovanni Floris, in quelli di Felice Froio o di Giorgio Israel, tra i tanti. E naturalmente nei rapporti OCSE, sempre più sconsolanti negli ultimi lustri. Ma, soprattutto, avrete la netta percezione del disastro culturale tendendo l'orecchio nei mezzi e nei luoghi pubblici, o accendendo la televisione, sfogliando certi quotidiani e anche parecchia letteratura "da diporto" e da top ten. Non si può fare a meno di pensare al Nume della critica letteraria Harold Bloom ed alle sue ieratiche, colorite espressioni quando si affrontano questi argomenti: la scomparsa dell'eccellenza, l'abitudine alla mediocrità, il livellamento verso il basso, l'antimeritocrazia al potere.
Ma il "sistema" sociopolitico e mediatico fa anche di peggio. Fornendo modelli sbagliatissimi, dall'effimero successo della TV-spazzatura allo "sportivo" del pallone che riceve ogni anno compensi che superano il fatturato di molte piccole e medie imprese. Avvalorando scale assiologiche demenziali, che relegano agli ultimi posti la cultura, specialmente quella scientifica. E posso continuare il cahier de doléances per due o trecento pagine, ad esempio con un ritratto tinte fosche dello spaventoso e gattopardesco immobilismo sociale e aziendale italiota, citando a concause la gerontocrazia, l'assenza totale di una infrastruttura nazionale di lifelong learning, la lottizzazione, le troppe barriere invisibili (quelle vere, non le balordaggini ideologiche delle minoranze isteriche del glass roof) e mille altri cavalli di Frisia e "ostacoli architettonici" che dimostrano quantomeno poca attenzione sociale, quando non vivo ostruzionismo o cooptazione predeterminata, nei confronti delle nostre migliori menti. Qui il discorso scivolerebbe con totale naturalezza sulla dittatura degli imbecilli, per dirla con Pino Aprile, sulla prevalenza del cretino, sui misfatti sociali della stupidità umana così finemente analizzata da Carlo Maria Cipolla. E non si può non pensare alla tagliente analisi di William A. Henry III in quel capolavoro assoluto che troverete sempre appoggiato sul mio comodino: "In difesa dell'elitarismo". Mi fermo qui, obtorto collo.
Citerei ancora, a proposito, solo la poco quantificabile (ma non meno temibile) mentalità di livorosa invidia, aggressività verbale e volontà di malintesa rivalsa sociale di taluni nei confronti di chiunque sembri avere anche solo un'ombra dei "privilegi" dei quali parla Guénon.
Privilegi che - sia chiarissimo, inequivocabile - sono tutt'altra cosa rispetto ai "privilegi" materiali dei ricchi e neoricchi, degli habentes più o meno "parvenu" (si pensi ad esempio ai casi descritti in "Chic" di Gian Antonio Stella e in "Nove zeri" di Paolo Madron) o a quelli indebiti delle varie caste, altrecaste, ultracaste denunciati dagli altri noti pamphlet che ormai da tempo impazzano nelle librerie, ma noti sintomaticamente fin dagli anni Ottanta agli osservatori più attenti e meglio informati.
Tornando a Guénon, il potere predittivo di quei saggi fuori dal tempo appare oggi ancora più palese, se solo si mette a margine la valenza semantica di primo piano. Sì, perché René Guénon (chiedo venia a chi, tra i miei tre lettori, lo sa già benissimo) ha dedicato la propria esistenza e la propria ricerca alla tradizione mistico-sapienziale: dunque il "segreto" cui si riferisce implicitamente in queste righe è innanzi tutto di tipo mistico e iniziatico. I suoi aristoi, a ben guardare, restano quasi sempre ampiamente sovrapponibili con le definizioni di Hans Eysenck e della scuola "innatista", e sono del tutto compatibili con le dinamiche sociali paretiane.
Ma non c'è solo il livello superficiale, il più ovvio: la provocazione della rilettura di oggi è proprio questa. Appare straordinario come la forza e la pregnanza di quelle constatazioni, di quelle asserzioni apodittiche, di quei giudizi di valore così netti rimanga pressoché inalterata anche passando al piano metaforico, alle intepretazioni estensionali.
Ad esempio, pensiamo per esercizio di riferire le pagine esemplificate supra all'attitudine "moderna" (in particolare di certe correnti ideologiche e di certi sottogruppi antropologici spontanei) nei confronti dei necessari segreti diplomatici e di Stato, oppure di alcuni normalissimi segreti industriali.
Ecco allora che vediamo meglio tratti così caratteristici di questo periodo di basso impero: fior di babbei a berciare che i vertici istituzionali dovrebbero render pubbliche queste o quelle informazioni necessariamente secretate per ragion di Stato, a soddisfare i più futili pruriti - ad esempio, per smentire le balorde insinuazioni sulle cosiddette "versioni ufficiali" o per demolire l'ennesimo delirio cospirazionista, invertendo l'onere della prova. Siamo al vaniloquio puro.
In questo modo il passo dalla sacrosanta trasparenza istituzionale (a tutti i livelli) alla pura ficcanasaggine o a pretese in odore d'ordalia diviene breve, brevissimo. Fin troppo tipico dell'oclocrazia e del giacobinismo, della paranoica cultura del sospetto, dello svilimento di ogni valore.
Il primo motore immobile, naturalmente, è quella "volgarizzazione" evidenziata nel primo paragrafo, l'ottuso bricolage cognitivo delle masse: Guénon si riferiva chiaramente ed in primissimo luogo a volgarizzazioni (occidentali) del corpus sapienziale, mode stagionali dell'esoterismo occultista, religiosità popolare, spettacolarizzazioni di ispirazione tardo ottocentesca, prodromi e antenati della newage (sai che novità).
Nella nostra modestissima rilettura estesa, ciò assume invece i mostruosi connotati di quell'orripilante, ribollente pastiche di attacchi continui alla complessità del reale, cattiva divulgazione, relativismo sfrenato, informazione fai-da-te e deliri di ogni tipo riversati incontrollatamente a getto continuo nei bassifondi della Rete, "alternative pop" basate su leggende urbane e spiegazioni semplici-ma-sbagliate. E alla via così, a vele spiegate, in un mare di fregnacce non indegne di una trama di Ionesco.
La caratterizzazione del proprio gruppuscolo preferito di {attivisti, complottisti, dietrologi, paranoici, alienati, sciroccati, ...} in relazione all'uso e all'abuso della retorica del "sovvertimento dell'asimmetria informativa", della "abolizione del segreto", della volgarizzazione e dell'errore concettuale sistematico spacciato per diffusione di "conoscenza" è lasciata come semplicissimo esercizio per il lettore.
Già che ci siamo, e scusate la lungaggine ma proprio non ho tempo di far più breve questo post (Sciascia docet), mi scappa un altro promemoria: se capitate in biblioteca, date un'occhiata a Sandro Segre, "Weber Mosca Pareto", Franco Angeli, e ai bei lavori critici di Piero di Vona su Guénon.
1 commento:
Per il commentatore impaziente, che ha inviato due volte il medesimo "commento":
"a ciascuno la stessa cosa;
a ciascuno secondo i suoi meriti;
a ciascuno secondo le sue opere;
a ciascuno secondo i suoi bisogni;
a ciascuno secondo il suo rango;
a ciascuno secondo ciò che la legge gli attribuisce.
cercare l'elemento che queste sei formulazioni hanno in comune "
A domanda insensata, risposta banale: l'elemento comune è che... l'autore di tutte le asserzioni (e anche della domanda finale implicita, che in realtà è solo una delle alternative considerate) è Chaim Perelman.
Ma la vera domanda è: che diavolo c'entra ?
Anticipo che il logico polacco è senza dubbio uno dei miei autori preferiti, in primis in quanto padre e punto di riferimento per la teoria dell'argomentazione - assai più vicino alla mia sensibilità e formazione rispetto a Toulmin, ad esempio.
Ma, ammesso che il commento intendesse recare un minimo di senso, il suo saggio sulla giustizia formale non mi pare poi così attinente al presente post. Peraltro trovo che sia solo complementare rispetto ai classici lavori generali di Dahl o Milton sulla democrazia liberale, o agli specifici contributi game-theoretic alla teoria della governance razionale dei vari Baird, Cooter, Layard, Gertner, Picker, Rappoport, senza andare troppo sullo specialistico - in fondo, sono un profano.
Inoltre, devo sottolineare che presentarsi limitandosi a porre seccamente indovinelli, o pseudoesercizi cut&paste che siano, è una modalità d'interazione alquanto indisponente e non accettabile.
Vero che suol dirsi "gli esami non finiscono mai": ma ogni cosa vuole il suo tempo, luogo e reciproco riconoscimento. Per questo volta ho optato per una linea morbida e accomodante, in futuro mi limiterò ad ignorare simili perdite di tempo.
Grazie.
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